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vendredi, 05 septembre 2014

La fine dell’alleanza mediorientale degli USA

La fine dell’alleanza mediorientale degli USA

Alessandro Lattanzio

Ex: http://aurorasito.wordpress.com

Barack Obama, King Abdullah

Grandi mutamenti si sono avuti ad agosto in politica internazionale. Non solo si registrava la sconfitta della NATO in Ucraina, con la grande offensiva dell’Esercito Popolare di Novorossija, ma anche in Nord Africa/Medio Oriente, dove, dopo il sussulto causato dall’avanzata dell’esercito islamo-atlantista del SIIL (Stato Islamico in Iraq e Levante) in Iraq settentrionale e Siria orientale, le forze regionali del campo filo-USA, profondamente divise e contrapposte, avviavano la controffensiva al piano islamo-atlantista avviato nel dicembre 2010, noto come ‘Primavera araba’, radicalizzatosi immediatamente dal febbraio 2011 con le operazioni sovversive in Egitto, l’infiltrazione in Siria e il golpe-invasione in Libia. La serie di operazioni occulte e destabilizzanti attuate nel corso di questi tre anni da Washington, Tel Aviv, Parigi, Londra, Berlino, Roma e Ankara tramite le reti Stay Behind della NATO e con il supporto della Fratellanza mussulmana finanziata dal petroemirato del Qatar, hanno portato alla formazione dell’ultimo avatar di al-Qaida, ovvero il già citato SIIL. Tale organizzazione terroristica, una sorte di ‘super-clan’ delle dune, è un prodotto delle operazioni spionistiche e di guerra psicologica delle agenzie d’intelligence israeliane e statunitensi, allo scopo di scavalcare i Paesi arabi, soprattutto l’Arabia Saudita, nel controllo della legione islamista, composta da decine di migliaia di mercenari e terroristi islamisti, salafiti e taqfiriti radunati in Turchia, dove vengono addestrati, armati e finanziati. Ciò è dettato dell’inefficienza operativa dimostrata dai Paesi del Golfo e dalla Giordania nell’aggressione alla Siria, e dalla conseguente incapacità di affrontare seriamente l’Asse della Resistenza in costruzione, imperniata nell’Iraq risorgente di al-Maliqi. Tale inefficienza ha spinto Washington non solo a creare direttamente il suo esercito islamista, appunto il SIIL, ma ad iniziare ad usarlo in modo sotterraneo anche contro l’Arabia Saudita, una volta rivelatosi impossibile controllare la produzione petrolifera irachena, eliminare la Siria baathista, controllare il caos in Libia, dominare totalmente la stessa Turchia, imporre il dominio islamista in Egitto e Libano, ed allontanare l’Iran dall’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai. Dopo tutto ciò, rimane Ryadh quale ultimo bersaglio apparentemente abbordabile. L’occupazione degli enormi giacimenti petroliferi sauditi, di cui disporre a piacimento, sicuramente balena da decenni nelle menti del Pentagono e di Langley. E a Ryadh, e nelle capitali degli altri petroemirati del Golfo Persico, si sarà di certo intuito che qualcosa di torbido, a Washington, si muove dalla Siria alla penisola arabica. Da qui la probabile ragione dell’ultimo intervento del decrepito monarca saudita, re Abdullah, che il 29 agosto a Ryadh, ricevendo i nuovi ambasciatori accreditati in Arabia Saudita, tra cui quello degli Stati Uniti, si dichiarava “sorpreso dall’inazione verso il terrorismo del SIIL, da egli ritenuto ‘inaccettabile’ e verso cui reagire con forza e determinazione. “Vedete come (i jihadisti) decapitino e mostrino ai bambini teste mozzate per strada“, aveva detto condannando la crudeltà di tali atti. Piuttosto sorprendente da un re che aveva massicciamente sostenuto tali barbari criminali quando devastavano la Siria. Re Abdullah, che sembra aver ripreso coscienza, ha continuato: “Non è un segreto per voi ciò che fanno e faranno ancora. Se li ignorate, sono sicuro che arriveranno in un mese in Europa e dopo due in America“. Infatti, ciò non è un segreto per certi Paesi occidentali, complici nella nascita e metastasi di tale cancro islamo-terrorista. Sempre il 29 agosto, il principe saudita Walid bin Talil si recava a Parigi in visita privata, venendo ricevuto da François Hollande all’Eliseo. Tale incontro ebbe luogo pochi giorni prima dell’arrivo a Parigi del principe ereditario saudita Salman bin Abdul Aziz, ricevuto il 1 settembre all’Eliseo da François Hollande, nell’ambito della visita ufficiale per la cooperazione militare nella crisi in Medio Oriente. Il principe ereditario si recava in Francia per dire ciò che re Abdullah aveva detto ai diplomatici in Arabia Saudita. In altre parole, non si dovrebbe più giocare con il fuoco del fondamentalismo, perché vi è il pericolo dell’incendio. Era questo che ha spinto a reagire il re saudita, temendo per il suo regno l’indecisione e l’inazione di Barack Hussein Obama negli attacchi aerei contro i jihadisti del SIIL. Il 30 agosto 2014, il quotidiano saudita Asharq al-Awsat e la rete TV al-Arabiya riferivano tali propositi del re saudita. Abdullah aveva anche detto che “il terrorismo non conosce confini e può interessare diversi Paesi al di fuori del Medio Oriente“, dove i jihadisti del SIIL devastano barbaramente i territori conquistati in Siria e in Iraq grazie al denaro saudita e qatariota, e alle armi fornite da statunitensi, inglesi e francesi. Anche se ritardataria, la posizione di re Abdullah è un’importante svolta nella politica saudita. Rientra nella logica del sostegno saudita al Generale Abdelfatah al-Sisi contro la Fratellanza musulmana in Egitto. “Ma questa politica sarà ambigua fin quando non sarà avviato un cambiamento radicale nella crisi siriana, e non sia imposta una giusta correzione allo Stato canaglia del Qatar, principale finanziatore del terrorismo islamico nel mondo arabo, africano e occidentale.”


A ciò si aggiunga gli ultimi eventi nella Libia oramai martirizzata da tre anni d’interventismo islamo-atlantista, “A fine agosto 2014, il Paese aveva due parlamenti: uno eletto dal popolo libico, e l’altro legittimato esclusivamente dal supporto straniero. La situazione sembrava così difficile, a quel punto, che era possibile l’intervento militare da parte degli Stati regionali, capeggiati dall’Egitto, per l’obiettivo di stabilizzare il Paese eliminando i jihadisti finanziati e armati dall’estero e che utilizzano la Libia come trampolino di lancio della guerra islamista contro l’attuale governo egiziano. … Il Qatar ha creato un “esercito libero egiziano” nel deserto della Cirenaica, modellato sull'”esercito libero siriano” che Qatar, Turchia e Stati Uniti avevano costruito per sfidare il leader siriano Bashar al-Assad. … Nell’agosto 2014, i terroristi jihadisti legati ai gruppi salafiti collaboravano con i Fratelli musulmani (Iqwan) radicati in Cirenaica e sostenuti da Qatar, Turchia e Stati Uniti. … Il 18 agosto 2014, la situazione si era deteriorata al punto che aerei da combattimento degli Emirati Arabi Uniti (EAU), operando da basi egiziane, effettuarono attacchi contro le milizie jihadiste a Tripoli, senza preavvisare gli Stati Uniti. L’operazione fu coordinata con il governo dell’Arabia Saudita, che permise agli aerei dell’aeronautica degli Emirati Arabi Uniti si sorvolare il regno saudita verso l’Egitto. Gli aerei dell’aeronautica emirota utilizzarono le aviocisterne Airbus A330MRTT per rifornirsi in volo e raggiungere la base aerea di Marsa Matruh, o un’altra base aerea avanzata egiziana, da cui effettuare gli attacchi sugli obiettivi libici. I primi attacchi, il 18 agosto 2014, colpirono gruppi di terroristi; i successivi, del 23 agosto 2014, colpirono lanciarazzi e veicoli militari dei terroristi forniti dal Qatar. Gli attacchi non impedirono alle milizie della coalizione islamista di Misurata, Fajr al-Libiya (Alba della Libia), di occupare il 24 agosto Tripoli, sottraendola al controllo della milizia di Zintan. L’UAE colpì anche Ansar al-Sharia, altro gruppo islamista sostenuto da Washington”.


Il 25 agosto 2014, Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Regno Unito rilasciarono una dichiarazione che denunciava le “interferenze esterne” in Libia, che “aggravano le divisioni attuali e minano la transizione democratica della Libia“, nascondendo la realtà che gli Stati Uniti dal 2011 interferiscono in Libia continuando a sostenere l’invadenza del Qatar. Allo stesso tempo, sempre con l’incoraggiamento degli Stati Uniti, l’ex-parlamento islamista, senza mandato, veniva riconvocato il 25 agosto 2014 per deliberare lo scioglimento del governo ad interim votato dal Parlamento neoeletto e contrario agli islamisti. Il Parlamento non controllato dagli islamisti continua a riunirsi a Tobruq, in Cirenaica, dove il 24 agosto licenziava il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Abdesalam Jadallah al-Ubaydi, sostituendolo con il colonnello Abdelrazaq Nadhuri, promosso generale per l’occasione. Nadhuri, della città di Marj, a 1100 km ad est di Tripoli, ha partecipato con il ministro degli Esteri della Libia e agli omologhi regionali, al vertice di Cairo per discutere la minaccia islamista. Nadhuri sostiene l’operazione anti-islamista Qarama (Dignità) del generale Qalifa Haftar. All’annuncio della nomina di Nadhuri, alcuni generali libici espressero la loro contrarietà dichiarando “di rifiutarsi di lavorare al comando di un ufficiale che supporta l’operazione Qarama, e di riconoscere solo il generale al-Ubaydi come Capo di stato maggiore“. Intanto, il 25 agosto il Congresso Nazionale Generale (GNC), ufficialmente sostituito dal nuovo Parlamento, nominava una figura islamista, Umar al-Hasi, per formare un “governo di salvezza” che riceveva il riconoscimento degli Stati Uniti. Quindi la Libia oggi ha due parlamenti e due governi. Il ministro degli Esteri egiziano Samah Shuqri avrebbe detto, il 25 agosto, che la situazione in Libia minaccia la regione, “Gli sviluppi in Libia colpiscono la sicurezza dei Paesi vicini, per la presenza di movimenti estremisti e gruppi terroristi i cui attivisti non solo non si fermano ai territori libici ma s’infiltrano nei Paesi vicini”, affermando anche che la diffusione dell’illegalità dalla Libia potrebbe richiedere l’intervento straniero. La posizione di Egitto, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti svela la divisione tra gli ex-alleati di Washington. Sottolineando ciò, il presidente egiziano Abdelfatah al-Sisi dichiarava, sempre il 24 agosto, che Qatar, Turchia, Stati Uniti e Fratellanza musulmana finanziano nuovi piani mediatici che “volti a minare la stabilità dell’Egitto“. Tali potenze, ha detto, “non esitano a spendere decine di milioni, o addirittura centinaia di milioni di dollari per tali siti, promuovendo idee che mirano a minare la stabilità dell’Egitto”.


Gli Stati Uniti, ed Israele, si alienano i principali alleati regionali nel perseguimento di obiettivi strategici confusi e indefiniti, volti solo a generare caos e, forse, creare terreno bruciato economico-sociale intorno all’Asse eurasiatico, il cui nucleo è rappresentato dal riallineamento strategico tra Mosca, Beijing e Tehran, verso cui gravitano sempre più Turchia, Siria, Iraq ed Egitto.

 

 

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Il senatore interventista neo-con McCain e, cerchiato in rosso, al-Baghdadi, presunto califfo del SIIL

 

Fonti:
Il re saudita non sostiene più i terroristi islamici! 1 settembre 2014
La Libia al centro della frattura tra gli alleati regionali degli USA  31/08/2014

jeudi, 04 septembre 2014

ISIS is America’s New Terror Brand: Endless Propaganda Fuels “War on Terror”

 
ISIS is America’s New Terror Brand: Endless Propaganda Fuels “War on Terror”

By James F. Tracy
GlobalResearch.ca

In the wake of World War I, erstwhile propagandist and political scientist Harold Lasswell famously defined propaganda as “the management of collective attitudes” and the “control over opinion” through “the manipulation of significant symbols.”[1] The extent to which this tradition is enthusiastically upheld in the West and the United States in particular is remarkable.

The American public is consistently propagandized by its government and corporate news media on the most vital of contemporary issues and events.

Deception on such a scale would be of little consequence if the US were not the most powerful economic and military force on earth.

A case in point is the hysteria Western news media are attempting to create concerning the threat posed by the mercenary-terrorist army now being promoted as the Islamic State of Iraq and Greater Syria, or “ISIS.”

As was the case with the US intelligence asset and bogey publicized as “Al Qaeda,” and Al Qaeda’s Syrian adjunct, “Al Nusra,” such entities are—apparently by design—inadequately investigated and defined by major news media. Absent meaningful historical context they usefully serve as another raison d’ểtre for America’s terminal “War on Terror.”

A seemingly obvious feature of such terrorist forces left unexamined by corporate media is that they are observably comprised of the same or comparable personnel unleashed elsewhere throughout the Middle East as part of a strategy proposed during the George W. Bush administration in 2007.[2]

With the above observations in mind, ISIS is well-financed, militarily proficient, and equipped with modern vehicles and weaponry. It also exhibits an uncanny degree of media savvy in terms of propagating its message in professional-looking videos and on platforms such as YouTube and Twitter. “Western intelligence services,” the New York Times reports, claim to be “worried about their extraordinary command of seemingly less lethal weapons: state-of-the-art videos, ground images shot from drones, and multilingual Twitter messages.”[3]

Along these lines, ISIS even received a largely sympathetic portrayal in a five-part series produced and aired by the Rupert Murdoch-backed Vice News.[4] Indeed, Vice News’ “The Spread of the Caliphate” is reminiscent of the public relations-style reportage produced via the “embedding” of corporate news media personnel with US and allied forces during the 2003 conquest of Iraq.

The overt support of ISIS, combined with the fact that it is battling the same Syrian government the Obama administration overtly sought to wage war against just one year ago, strongly suggest the organization’s sponsorship by Western intelligence and military interests.

ISIS’s curious features are readily apparent to non-Western news outlets and citizenries. For example, Iran’s PressTV recently asked its readership, “Why does the ISIL have such easy access to Twitter, Youtube and other social media to propagate its ideologies?” The answer choices are, “1) Because the ISIL has very capable technicians who can best use social media, or 2) Because the US and Britain have provided the ISIL with unrestricted social media platform[s].” Note that the first choice is the overarching assumption of Western media outlets. Yet perhaps unsurprisingly, 90 percent of PressTV readers selected choice two.[5]

No such queries are so much as alluded to by major corporate media, all of which are united in the notion that ISIS is an essentially indigenous phenomenon. Yet as coverage of the events of September 11, 2001 and subsequent state-sponsored terrorism indicates, such media are essentially a component of the national security state, their reports and broadcast scripts all but overtly written by intelligence and military organizations.

In the wake of 9/11 US news media seldom asked about the origins of Al Qaeda—particularly how it was a product of US intelligence agencies. With the history of Al Qaeda omitted, the Bush administration was permitted to wage war on Afghanistan almost immediately following those staged attacks on the World Trade Center and Pentagon.

Yet as is much the case with today’s manufactured ISIS phenomenon, that history was readily available, and its careful public examination might have implicated the United States intelligence community in the 9/11 attacks. “During the Cold War, but also in its aftermath,” Michel Chossudovsky observes,

the CIA—using Pakistan’s military intelligence apparatus as a “go between”—played a key role in training the Mujhadeen. In turn, the CIA-sponsored guerrilla training was integrated with the teachings of Islam. Both the Clinton and Bush administrations have consistently supported the “Militant Islamic Base”, including Osama bin Laden’s Al Qaeda, as part of their foreign policy agenda. The links between Osama bin Laden and the Clinton administration in Bosnia and Kosovo are well documented by congressional records.[6]

As the United States and world approach the thirteenth anniversary of the most momentous false flag in modern history, the American public would be well-served to remind itself that ISIS is the new Al Qaeda—in other words, the new pretext that will in all likelihood be used by to take police state measures at home and military aggression abroad to new, perhaps unprecedented, levels.

With the above in mind, it is telling that one of the US government’s greatest fears isn’t ISIS at all. “The FBI’s most recent threat assessment for domestic terrorism makes no reference to Islamist terror threats,” the Washington Free Beacon reports, “despite last year’s Boston Marathon bombing and the 2009 Fort Hood shooting—both carried out by radical Muslim Americans.”

Instead, the nation’s foremost law enforcement agency is preoccupied with what it deems “domestic extremism” exhibited by its own subjects.[7] A primary manifestation of such “extremism” is possessing the curiosity to discern and seek out truths and information amidst the barrage of manipulated symbols the government and corporate-controlled media use to undermine a potentially informed public.

Notes

[1] Harold Lasswell, Propaganda Technique in the World War, Cambridge MA: MIT Press, 1927/1971.

[2] Seymour Hersh, “The Redirection: Is the Administration’s New Policy Benefitting Our Enemies in the War on Terrorism?” New Yorker, March 5, 2007; Tony Cartalucci, “Extremists Ravaging Syria Created by US in 2007,” Land Destroyer Report, May 11, 2012.

[3] Scott Shane and Ben Hubbard, “ISIS Displaying a Deft Command of Varied Media,” New York Times, August 30, 2014.

[4] Joe Bercovici, “Thanks to Rupert Murdoch, Vice is Worth $1.4 Billion. Could it be in Play Soon?” Forbes, August 19, 2014; Medyan Dairieh, “The Spread of the Caliphate: The Islamic State,” Vice News, August 13, 2014.

[5] PressTV Poll, http://presstv.ir, retrieved on August 30, 2014.

[6] Michel Chossudovsky, America’s “War on Terrorism” Second Edition, Montreal CA: Global Research, 2005, 4.

[7] Bill Gertz, “FBI National Domestic Threat Assessment Omits Islamist Terrorism,” Washington Free Beacon, August 29, 2014.

Reprinted with permission from GlobalResearch.ca.

lundi, 01 septembre 2014

US and Gulf Destabilization Policies

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Siege of Mecca, Afghanistan, Iraq, Pakistan and Syria: US and Gulf Destabilization Policies

Murad Makhmudov and Lee Jay Walker

Ex: http://www.moderntokyotimes.com

In the 1980s the United States, Saudi Arabia, Pakistan, the United Kingdom and some other nations began to fund Sunni Islamic terrorism in Afghanistan. This meddling came hot on the heels of the Siege of Mecca in Saudi Arabia in 1979. Therefore, funding radical Sunni Islamism in Afghanistan came at a very opportunistic time for the rulers based in Saudi Arabia.

Pakistan became the central base in training international jihadists and spreading Islamism in Afghanistan. Irrespective of the motives in Afghanistan and the rights and wrongs, it is clear that the convulsions from intervening in this nation are still being felt in many nations today. The United States and Pakistan unleashed the CIA and ISI respectively, in order to create an Islamist fighting force which could take on the Soviet Union. British special intelligence played its part in this covert war but turning the clock to 2014 and it is clear that a stream of failed states and terrorism “filled this vacuum” created by outside meddling.

In the case of Pakistan then the ISI and central government have created their own Sunni Islamist Takfiri nightmare because this nation can no longer contain the forces it unleashed. This means that the Islamist agenda now deems the government of Pakistan to be anti-Islamic and the knock-on-effect is increasing hatred towards all minorities and threatening indigenous Sunni Islam. Therefore, all minorities irrespective if Muslim or non-Muslim are facing the wrath of Takfiri Islamism and this can be seen by attacks against Ahmadiyya Muslims, Shia Muslims, Hindus, Christians and against the followers of Sufi Islam.

When brave Sunni Muslim voices in Pakistan speak out like Salman Taseer, the former Governor of Punjab, then death follows. At the same time Christians have been burnt alive and an alleged Muslim blasphemer was also burnt alive recently. The most worrying aspect is that these crimes against humanity are not happening only in areas of chaos because of the power of several Islamist organizations – but it is happening within mainstream society.

This means that all the past funding of militant Sunni Islamism by nations who supported the war in Afghanistan, have collectively created a nightmare that was filled by the dreams of Saudi Arabia and other Gulf powers. It is clear that while the United States and United Kingdom were focusing on the sole issue of Afghanistan.  At no point did either nation appear to understand the dynamics of militant Sunni Islamism that began to alter the religious and political landscape – this also applies to internal militancy within Western nations based on Gulf petrodollars. Decades earlier in Afghanistan prior to outside meddling it was clear that women had much greater freedom and likewise indigenous Islam varied from region to region. However, the oppressive nature of chaos and hatred was alien and major cities like Kabul were places whereby individuals had ample choices compared with the reality of modern day Afghanistan.

Yet dangerous past political leaders in Pakistan like General Zia ul-Haq, along with Saudi Arabia and other Gulf states, would alter the dynamics within the Muslim world in this part of Asia. The repercussions continue today with various militant Sunni Islamist movements causing mayhem in Afghanistan and Pakistan respectively. At the same time the roles of women have suffered greatly in areas where Islamists have strong power-bases. Likewise, sectarianism, terrorism and weakened central states in Afghanistan and Pakistan have followed the vacuum that was unleashed – likewise, modern day Libya is in crisis based on the same meddling powers.

Therefore, sectarian Takfiri attacks in Afghanistan and Pakistan are natural realities in this part of the world. On top of this, the US led invasion of Iraq which led to the exodus of vast numbers of Christians and other minorities, was also filled by Takfiri Islamism and rampant sectarianism. Iraq despite the brutal dictatorship of Saddam Hussein was staunchly secular and internal terrorism was not a threat to the government based in Baghdad. However, once the US entered the equation then the vacuum once more was filled by various Takfiri Islamist organizations including al-Qaeda. Also, just like September 11 was done by mainly Saudi nationals, this nation also provided the single largest number of foreign Islamists who went to Iraq in order to kill US soldiers and other allied forces – alongside killing Shia Muslims.

The angle from Saudi Arabia was that the control mechanisms of the new Iraq had installed a Shia led government against the wishes of Riyadh. After all, for Takfiri Islamists who follow the Wahhabi faith in Saudi Arabia this was tantamount to treachery. Once more, just like American citizens had been killed on September 11 because of mainly Saudi nationals, this time it was American soldiers who would die in the thousands because of Saudi Islamists and the funding that came from this nation irrespective if from organizations or because of wealthy individuals. The irony now, and a sad irony for American soldiers, was that the majority of American deaths in Afghanistan and Iraq were because of the policies of their so-called friends in Pakistan and Saudi Arabia respectively. Once more, however, the United States and elites within Washington appeared to allow this confused policy to stand by ignoring the ratlines that were killing their own soldiers.

Today Iraq falls into the “failed state domino system” that often follows outside meddling by other nations. Therefore, terrorism is a daily reality in Iraq, vast numbers of minorities have fled, women have suffered in parts of the country, the north is de-facto under Kurdish rule and sectarianism blights the nation state. However, political leaders once more in Washington have now unleashed another brutal vacuum in Syria despite the ongoing problems in Afghanistan, Iraq and Pakistan.

At no point during the leadership of Bashar al-Assad did religious minorities have to worry about their future prior to outside meddling. Likewise, women in Syria had freedoms that could only be dreamt about in Afghanistan, Qatar, Saudi Arabia and other nations within the US orbit in the Middle East.  Indeed, unlike in France that infringes on the way Muslim females must dress, or in Switzerland which puts restrictions on Muslim places of worship – in Syria women decide how they want to dress and all religious faiths have places to worship.

However, the so-called “Arab Spring” was usurped by powerful forces and for Saudi Arabia and Qatar it was a time to fill the vacuum with Sunni Takfiri Islamism. The Libya crisis once more is unleashing forces that are still ongoing and this applies to chaos and no central control. Alongside this is the destabilization of northern Mali because of forces unleashed by the demise of Libya. It is still too early to say which way the future will go in Libya but clearly Islamic terrorist groups and Islamist religious organizations are intent on filling the vacuum. In northern Mali they have already altered the landscape and clearly this area will be a base for further chaos throughout the region.

Syria therefore remained the most powerful and independent Arabic speaking nation which was staunchly secular and free from outside control. Neither America nor Saudi Arabia could pull the strings of this nation but once demonstrations began in Syria then outside forces soon entered. The emergence of “a ghost Free Syrian Army (FSA)” soon emerged rapidly just like the rise of the Kosovo Liberation Army and rebels in Libya. Clearly, all these forces rose far too quickly for them to be spontaneous therefore long-term policy objectives had been waiting in the wings to fill any vacuum that may emerge – or, to create a vacuum by unleashing powerful forces quickly.

From very early on in the Syrian crisis many soldiers were killed and clearly they were not killed by peaceful demonstrators. Bashar al-Assad admitted himself that mistakes were made in the early period but if it wasn’t for outside forces then the situation would have been contained. The crisis in Bahrain remains because the Shia feel neglected and forces within the Sunni population also have many misgivings. Despite the brutal crackdown in Bahrain it is clear that the death rate is much lower than Syria because no outside nation gave military arms to the demonstrators. On the contrary, Saudi Arabia was allowed to get involved in order to crush the uprising which was spontaneous.

In the case of Syria the nations of Saudi Arabia and Qatar are funding international terrorists and mercenaries. Also, Turkey is another aggressor to Syria because this nation is allowing the FSA and various Islamist organizations to have bases near the border with Syria. The CIA and Islamist agenda, unlike in Iraq and Afghanistan after September 11 (before this both were allies), have once more converged in order to destabilize Syria. Just like in Afghanistan it is clear that America’s only interest is to reduce the power of the Russian Federation and Iran respectively, with regards to geopolitics. However, just like in Afghanistan, Iraq and Pakistan; the Saudi Arabia objective is Sunni Islamism and spreading the Wahhabi/Salafist version of Islam.

The upshot of all this is that Syria is being destabilized by many forces which are supporting sedition, sectarianism and terrorism. Once more, this policy is impacting on the region and Lebanon remains very delicate and terrorist attacks have also started to increase in Iraq. Now in modern day Syria both the FSA and Islamists are beheading people, killing minorities, killing Iraqi refugees who fled to Syria, killing individuals who support Bashar al-Assad, killing journalists and TV reporters. Recent videos taken by the FSA show dead people being thrown from rooftops and captured individuals being photographed before being murdered.

Collectively, the deaths that people are currently reading about in the news or seeing on television in Afghanistan, Iraq, Pakistan and now Syria; all relate to the policies based in Washington and whereby other allies like Saudi Arabia have funded the carnage. Pakistan also continues to be blighted by Islamism because of dangerous policies which were enacted by past leaders. Other nations like Mali and Lebanon are feeling these shockwaves while closer to home Islamists are also spreading radicalism in major cities throughout Europe. Therefore, the powerful tremors of the Siege of Mecca in 1979 when Juhayman al-Otaibi and his followers stormed Mecca continues to reverberate around the Islamic world within the religious arena.

This single event galvanized America and Saudi Arabia to further bankroll Sunni Islamic terrorists in Afghanistan and bordering regions of Pakistan from 1979 onwards and up until the demise of the Soviet Union. After all, the elites in Saudi Arabia needed a distraction and America was worried about the repercussions of this extremely important event. It could well be that internal convulsions in Saudi Arabia are also behind events in Syria just like what happened after the Siege of Mecca with Afghanistan. After all, it is clear that the Shia community and elements within the Sunni population are unhappy with the current leaders of Saudi Arabia. Likewise, Saudi Arabia is supporting sectarianism in Bahrain and Yemen respectively and this helps to fill the “restive Islamist void in Saudi Arabia.”

Irrespective of all the factors of why America, Qatar, Saudi Arabia, France, Turkey and the United Kingdom are destabilizing Syria; it is clear that the forces being unleashed will not be able to be contained if central forces in Syria collapse. America is worried about this because of what happened in Iraq. Despite this, elites in Washington have allowed Saudi Arabia, Qatar, Kuwait and Turkey to destabilize Syria based on the deeds of the CIA, MI6, MIT, DGSE and other international covert operatives in NATO Turkey. The upshot of this is that ISIS and other terrorist forces are a major threat to Iraq and Syria.

One thing is for sure, the current carnage and daily terrorist attacks in Afghanistan, Iraq, Pakistan and Syria are all linked with the policies of Washington and the money emanating from Saudi Arabia, Kuwait and Qatar. All the above nations were once mainly free from international terrorism (some happened from time to time) but once the United States and Gulf petrodollars entered the equation then this all changed. The destabilization of Syria is following an all too familiar pattern and the same applies to the spread of terrorism and sectarianism once political elites in Washington and Riyadh get involved. However, just like what happened in Afghanistan in the 1980s and early 1990s, it is clear that the forces being unleashed against Syria can’t be contained and this reality is also threatening Iraq once more in 2014.

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dimanche, 31 août 2014

Europe is Exporting Takfiri Barbarity to Iraq, Somalia and Syria

Europe is Exporting Takfiri Barbarity to Iraq, Somalia and Syria

Murad Makhmudov and Lee Jay Walker

Ex: http://moderntokyotimes.com

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The government of Syria continues to face a civilizational war because Takfiri indoctrination, Gulf petrodollar terrorism, international jihadists, sectarian forces and the intrigues of major NATO powers are threatening this secular state. At the same time, Europe is exporting Takfiri barbarity to Iraq, Somalia and Syria because of Gulf petrodollars within Europe; the intrigues of security services; allowing Takfiri clerics to indoctrinate; and enabling natural breeding grounds to flourish throughout Europe. Therefore, the rich mosaic of Syria faces a civilizational war on several fronts and the same applies to Iraq and Somalia.

Indeed, the severity of the European Takfiri reality in the affairs of several nations is not fully known because the numbers are much higher than was commonly thought. This reality means that it is difficult to understand the real numbers involved in butchering and slaughtering in Iraq, Somalia and Syria. Despite this, it is clear that the numbers are vast and that NATO Turkey is an open border for international jihadists when it comes to the destabilization of Syria.

Al-Monitor reports that: “…a French jihadist interviewed by the weekly Paris-Match in March, claims that there are “at least” 500 recruits from France alone fighting with ISIS, which is merely one of the jihadist factions in Syria. It has lately been involved in an internecine conflict with other such factions, including Jabhat al-Nusra, al-Qaeda’s official affiliate in Syria. In a recent study, Thomas Hegghammer, director of terrorism research at the Norwegian Defense Research Establishment, used published estimates from European intelligence services to put the total number of European recruits fighting in Syria at fewer than 2,000. The study estimated the total number of French recruits fighting with all the factions, not only ISIS, at between 200 and 400.”

This reality means that Syria is facing a nightmare emanating from Europe because the number is extremely high. On top of this, the murky role of security services like the BND, DGSE and MI6 remains unknown. However, with France and the United Kingdom being involved in the destabilization of Syria then clearly many ties will remain open. After all, the brutal murder of Lee Rigby in London highlighted the fact that British security services had hoped to recruit one of the two barbaric individuals involved in butchering Lee Rigby.

In a past article by Modern Tokyo Times the same murky area was highlighted because the Anas al-Liby case is further evidence of the mass naivety within the British secret services – for example MI5 and MI6. It is known that one of the individuals involved in the barbaric murder of Lee Rigby was targeted to become a recruit of the British secret service. Likewise, al-Liby was given political asylum despite his al-Qaeda links being fully known and MI6 also tried to recruit him.”

In the same article highlighted earlier by Al-Monitor it is stated: “Referring to the French jihadists, Abu Shaheed told Paris-Match, “There are lots and lots of them. The place is covered with French [recruits]. I couldn’t even count them all.” In addition to individual French fighters in other ISIS units, Abu Shaheed said that there are five or six purely French-speaking brigades or katiba, consisting of French and Belgian fighters. He went on to explain that the formation of French-speaking brigades is a necessity, since the French and Belgian recruits ordinarily do not speak enough Arabic to be integrated into Arabic-speaking units. The recruits are known essentially to consist of second- and third-generation descendants of Arab immigrants and Muslim converts.”

Iraq, Syria and Somalia are particularly being hard hit by this reality therefore something is going wrong within so-called liberal Europe. After all, individuals are flocking to these nations in order to slaughter fellow Muslims, kill Christians and persecute various different religious minorities.

For example, in Somalia the al-Shabaab (al-Shabab) kill all apostates to Christianity in brutal ways. Likewise, Takfiri fanatics are attacking indigenous Sufi Islam in Somalia because many Sufi shrines have been destroyed. Apparently, it is this brutality that is attracting Muslim jihadists following the Takfiri thought pattern in the United Kingdom because they are intent on slaughtering “the other”

The same mode of thinking is leading to Takfiri jihadists killing Alawites, the Shia and indigenous Sunni Muslims that are deemed apostates unless they follow their Salafi and Takfiri mantra. Of course, the same is being replicated in Iraq and in other parts of the world like Pakistan.

France 24 reports: “One of the more disturbing aspects of the barbaric footage is the cavalier way the European jihadists move through the Syrian countryside, whooping, laughing and shouting in French as they drag the bodies of the slain civilians and fighters accused of supporting Assad.”

The factors behind the growth of European jihadists are multiple and not so clear because on-the-one-hand you have Gulf petrodollars and the incitement of hatred by Takfiri fanatics; on-the-other-hand you have government foreign policy objectives that are boosting terrorist forces. Of course, other important areas related to destabilization policies, media manipulation, social media and enabling international links to flourish equally apply – and other important factors. Therefore, vile aspects of Takfiri Islam and Salafi militancy are spreading their barbaric message far and wide. This is based on failures from within, allowing Takfiri Islamists to have a free reign in spreading sectarianism, focusing on Gulf petrodollars – and because of covert related issues based on the foreign policy objectives of major Gulf and Western powers.

This reality means that Iraq, Somalia and Syria face not only the results of outside meddling but they also face a civilizational war, whereby European jihadists want to turn-the-clock back to “year zero.”

http://www.al-monitor.com/pulse/iw/originals/2014/04/europe-jihadist-isis-syria-qaeda-terror-france-germany.html#ixzz3BZUOBvzh

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lundi, 25 août 2014

Amerika gaat IS gebruiken als excuus voor aanval op Syrië

‘Amerika gaat IS gebruiken als excuus voor aanval op Syrië’

Republikeinse senator: ‘IS zal proberen grote Amerikaanse stad op te blazen’

Ex: http://xandernieuws.punt.nl


Minister Defensie Chuck Hagel: ‘IS is grotere bedreiging voor VS en Europa dan 9/11.’

De Amerikaanse stafchef van de strijdkrachten, generaal Martin Dempsey, liet gisteren weten dat de islamitische terreurbeweging IS pas kan worden verslagen als er ook luchtaanvallen in Syrië worden uitgevoerd. Volgens de New York Times zal het Witte Huis daardoor dieper in het conflict in Syrië worden gezogen. Kritische analisten wijzen erop dat de in september 2013 dankzij de Russische president Putin op het laatste moment afgeblazen Amerikaanse aanval op Syrië zo alsnog op de agenda wordt gezet. (1)

Eén van de andere stappen die volgens de NYT kan worden genomen is het ‘trainen, adviseren en uitrusten van de gematigde oppositie in Syrië, en ook de Koerdische en regeringstroepen in Irak.’ Wat er niet bij werd gezegd is dat IS voor een groot deel bestaat uit door Turkije en de CIA getrainde en zwaar bewapende terroristen die uitsluitend tegen de Syrische president Assad hadden moeten vechten.

Putin voorkwam in september 2013 Amerikaanse aanval

Vorig jaar mislukte het om een Amerikaans-Turkse invasie van Syrië te rechtvaardigen. Aanvankelijk werd een aanval met chemische wapens in een buitenwijk van Damascus, waarbij honderden doden vielen, in de schoenen geschoven van de regeringtroepen van president Assad. Obama had zo’n aanval een ‘rode lijn’ genoemd, waarna Amerikaans ingrijpen zeker leek.

Twee zaken voorkwamen dat de Amerikaanse kruisraketten en bommenwerpers op Syrië werden afgestuurd. Allereerst was het de interventie van de Russische president Vladimir Putin, die een grote vloot tussen Syrië en de Amerikaanse aanvalsvloot posteerde, en dreigde alles wat de Amerikanen op Syrië zouden afsturen neer te schieten. Vervolgens kwam Putin met een briljante diplomatieke oplossing die het chemische arsenaal van Assad –althans op papier- verwijderde, maar de president wel in het zadel liet zitten.

Ten tweede waren het de boven tafel gekomen bewijzen dat de chemische aanval in Syrië niet door de regeringstroepen, maar door de rebellen was uitgevoerd, doelbewust om Assad daarvan de schuld te geven. Deze false-flag aanval bleek direct te zijn aangestuurd door Turkije. Tevens werd het bewijs geleverd dat de chemische bestanddelen van het gebruikte wapen afkomstig waren uit Saudi Arabië.

Turkije vormt met hulp VS neo-Ottomaans imperium

De Amerikaanse Pulitzer prijswinnende onafhankelijke journalist Seymour Hersh onthulde de directe betrokkenheid van Turkije en de samenwerking tussen de regering Erdogan en Al-Qaeda. Al in 2007 schreef hij in een uitgebreid artikel dat de regering Bush was begonnen met het steunen en trainen van aan Al-Qaeda gelieerde Soenitische terreurgroepen, met de bedoeling hen in te zetten tegen Syrië en de groeiende invloed van het Shi’itische Iran in Irak te stoppen.

Op deze wijze ontstond ook IS(IS). De Turken werkten samen met de Amerikanen bij het rekruteren, trainen en bewapenen van deze moslimterroristen, maar deels om geheel andere redenen. Turkije streeft weliswaar net als de VS naar het vervangen van Assad door een radicale Moslim Broederschap regering, maar met de achterliggende bedoeling om een grensoverschrijdend Islamitisch Kalifaat op te richten, dat later eenvoudig in het door Erdogan nagestreefde neo-Ottomaanse Rijk kan worden opgenomen.

Minister Hagel: IS grotere bedreiging dan 9/11

Gisteren noemde de Amerikaanse minister van Defensie Chuck Hagel IS ‘een grotere bedreiging dan 9/11... .IS is meer dan enkel een terreurgroepering. Ze verbinden ideologie met een geraffineerde strategische en tactische militaire onversaagdheid, en ze worden onvoorstelbaar goed gefinancierd. Dit gaat veel verder dan we ooit hebben meegemaakt. We moeten ons op alles voorbereiden. Wees er klaar voor.’

‘Het bewijs is behoorlijk duidelijk. Als we kijken naar wat ze deden bij meneer Foley –de Amerikaanse fotojournalist die op video werd onthoofd- en dreigen te doen bij alle Amerikanen en Europeanen, dan kan dit alleen maar als barbaars worden omschreven. Ze vertonen geen enkel fatsoen of verantwoord menselijk gedrag. Ze zijn een onmiddellijke bedreiging voor al onze belangen.’ (2)

Dat IS een grote bedreiging vormt en een ware uitroeiingsoorlog voert tegen christenen, ‘afvallige’ moslims en alle andere ongelovigen staat buiten kijf. Deze oorlog had er echter nooit zonder Amerikaanse, Europese, Turkse en Saudische hulp kunnen komen. De VS lijkt de strijd tegen IS nu als voorwendsel te gaan gebruiken om alsnog een militaire aanval op Syrië te rechtvaardigen, wat Turkije direct in de kaart zal spelen.

‘IS zal proberen grote Amerikaanse stad op te blazen’

Om het Amerikaanse publiek op te warmen voor weer een nieuwe oorlog waarschuwde de Republikeinse senator James Inhofe, topman in het Comité voor de Gewapende Diensten, dat IS zal proberen om snel ‘een grote Amerikaanse stad op te blazen.’ Inhofe uitte kritiek op Obama en zei dat de president nog steeds geen strategie heeft om IS te verslaan (3).

Ook luitenant-kolonel Anthony Schaffer vindt Obama’s reactie op de opmars IS, dat hij de ‘Antichrist van alle terreurorganisaties’ noemt, veel te slap. De president zou mede verantwoordelijk zijn voor de onthoofding van James Foley, omdat hij een reddingsoperatie onnodig lang zou hebben uitgesteld.

Xander

(1) Infowars
(2) Zero Hedge
(3) The Hill
(4) YouTube via Washington Free Beacon

Zie ook o.a.:

21-08: Videobewijs van IS trainingskampen in Turkije
18-08: Overgrote deel van de wereld nu crisisgebied (1/3 IS strijders afkomstig uit Europa)
08-08: Succes ISIS dankzij Westerse ‘bondgenoten’Turkije en Saudi Arabië
26-07: Crisis Oekraïne: Backup-plan globalisten naar Derde Wereldoorlog (/ NAVO en Westen gevangen in Saudische-pan islamitische agenda / Syrië blijft het doelwit)
18-06: Onthutsend: ISIS-terroristen werden getraind door Amerika en Turkije
10-05: Syrië: Regering Obama wil alle macht overdragen aan Moslim Broederschap
08-04: Pulitzerprijs journalist: Turkije achter gifgasaanval Syrië, werkt samen met Al-Qaeda
30-03: VS steunt Erdogans misbruik van NAVO voor herstel Ottomaans Rijk (/ Vanuit Turkije zal het nieuwe islamitische Kalifaat worden opgericht)
29-03: Ingrijpen Syrië nabij? Turkije geeft Al-Qaeda militaire- en luchtsteun
27-03: Gelekt gesprek op YouTube: Turken plannen false-flag aanslag om Syrië aan te vallen

dimanche, 24 août 2014

Discurso de Hassan Nasrallah sobre los takfiris de “Estado Islámico”

 

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

El secretario general de Hezbolá, Sayyed Hassan Nasralá, ha asegurado que los norteamericanos están detrás de la creación de grupos terroristas en la región con el fin de dividir y destrozar a los países árabes y realizar su proyecto último, un proyecto que no ha podido ser implementado por las ofensivas israelíes.

En una alocución televisada de casi dos horas pronunciada este viernes en la cadena de televisión libanesa Al Manar con ocasión del aniversario de la victoria de la Guerra de Julio de 2006, Sayyed Nasralá puso en guardia contra minimizar el peligro de los takfiris que quieren eliminar a todo el mundo, comenzando por los sunníes.

Según él, la victoria sobre los grupos terroristas es posible a condición de que sea puesta en práctica una política nacional y se comprenda que se trata de un peligro existencial. Él puso también en guardia en contra de elegir opciones que no llevan a ninguna parte en la lucha contra el grupo takfiri Estado Islámico (EI).

He aquí las ideas principales del discurso de Sayyed Nasralá:

Mucho ha sido dicho sobre la Guerra de Julio. Libros e informes han sido escritos tanto por el enemigo como por los amigos para extraer conclusiones. Esa guerra fue más que un simple conflicto; fue una verdadera batalla de dimensiones históricas. Condolezza Rice (entonces secretaria de Estado de EEUU) habló de un nuevo Oriente Medio. Así pues, fue una guerra regional e incluso internacional. Expertos norteamericanos dijeron entonces que la guerra de Julio era un episodio en la eliminación definitiva de la Resistencia en el Líbano. No se buscaba el desarme de esta resistencia, sino aplastarla y acabar con ella.

Ellos elaboraron un plan para liquidar a los dirigentes de la Resistencia y prepararon colonias en el norte de Palestina para detener allí a miles de combatientes.

Proyecto de dominación estadounidense

Este proyecto fue elaborado después de la ocupación estadounidense de Iraq. George W. Bush y su administración querían decapitar la resistencia en el Líbano y en Palestina y acabar con el régimen de Siria antes incluso de 2006. Él quería presentarse al público estadounidense como el presidente que venció al terrorismo internacional para ser reelegido. Y después de alcanzados estos logros, la administración norteamericana contaba con desencadenar una guerra contra Irán.

El primer objetivo de EEUU es el de controlar todas las reservas de petróleo y gas en la región.

El segundo objetivo es liquidar la causa palestina. Israel estaba a cargo de eliminar la resistencia en el Líbano y Palestina. Sin embargo, la tenacidad legendaria de la resistencia en el Líbano saboteó este proyecto.

Los combates sobre el terreno obligaron a Israel a reclamar un cese el fuego, como fue el caso más reciente de Gaza. Los dirigentes árabes que participan en negociaciones en Nueva York confirman que la tenacidad de la resistencia, del pueblo libanés y de la política oficial libanesa llevaron a la comunidad internacional a poner fin a la agresión israelí.

El fracaso de los objetivos de la Guerra de Julio

¿Cuáles fueron los resultados de la guerra de 2006?

1 –  Las capacidades de la resistencia se reforzaron.
2 – La guerra no golpeó a Siria en aquel momento.
3 – La guerra contra Gaza fue atrasada para después de 2006.
4 – La resistencia en Iraq contra la ocupación estadounidense se reforzó.
5 – El fracaso de los neoconservadores en las elecciones estadounidenses.

Cambio de táctica estadounidense

Sin embargo, la política belicosa estadounidense en la región continúa en vigor. Si los norteamericanos fracasan en conseguir sus objetivos cambian de política y de táctica.

Es, pues, necesario evocar la importancia de este éxito político, histórico, moral y humanitario conseguido por la Resistencia en el Líbano en 2006 y asegurar que somos capaces de hacer fracasar todo proyecto y todo complot contra nuestra región.

Después de 2001, los norteamericanos estaban en el apogeo de su fuerza. En contraposición, el mundo soviético y el mundo árabe estaban muy debilitados. Sin embargo, en el Líbano, Palestina, Iraq y Siria los grupos de la resistencia abortaron los proyectos estadounidenses y serán siempre capaces de hacerlo.

 

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Hoy en día, lo que pasa en Gaza ha llevado a la región árabe a una nueva situación. Una nueva estrategia está siendo seguida por los enemigos para alcanzar sus objetivos. Su nueva vía es la de imponer un proceso de paz a los palestinos.

En el pasado, los norteamericanos llevaron a cabo guerras contra Iraq y pusieron la mano sobre el Golfo y los israelíes lanzaron ofensivas contra los países fronterizos.

La estrategia de la destrucción de los países

Dos factores son utilizados en la nueva estrategia adoptada por los estadounidenses.

Esta nueva estrategia es más difícil y peligrosa que la anterior. Ya no es cuestión de derribar a un régimen y colocar otro. Esta nueva vía norteamericana e israelí consiste en destruir países y ejércitos. El enemigo busca diseñar un nuevo mapa en la región sobre las ruinas de los países, de los pueblos y de las sociedades de la región.

Ellos quieren lograr su objetivo sembrando el terror y la confusión y destruyendo los tejidos sociales de las poblaciones.

El enemigo busca ahora ablandarnos para que pidamos una solución. Frente a las nuevas condiciones difíciles, EEUU se convertiría así a los ojos de los pueblos en el salvador último de la región.

La corriente takfiri, representada especialmente por el Estado Islámico, es utilizada en este sentido.

Vencer al EI es posible

¿Podemos derrotar a esta nueva estrategia? Sí. Yo digo a todos los pueblos de la región que somos capaces de abortar esta nueva estrategia, como hicimos con la anterior.

Debemos comprender que existe una amenaza existencial contra todos nosotros y cuales son sus dimensiones. No debemos minimizar el peligro que nos acecha y debemos preparar los medios necesarios para hacerle frente. No hay, sin embargo, que exagerar esta amenaza.

Debemos buscar medios reales y serios para luchar contra ella sin recurrir a opciones que han demostrado ya ser ineficaces. Debemos elaborar un plan adecuado y seguirlo.

Desde 1948 hemos conocido una experiencia dura a través del proyecto de expansión sionista. Cuando los israelíes comenzaron a buscar a familias judías para crear un estado sionista en Palestina, muchos árabes minimizaron el alcance de esta medida sionista. Desde el principio, estas familias fueron repartidas de forma que cumplieran funciones militares y de seguridad. Nada era casual. La mayoría de los árabes no prestaban atención a lo que pasaba. Y de este modo, fue establecida la entidad sionista.

Incluso en 1967, algunos árabes desmentían que Israel tuviera proyectos expansionistas. Hoy en día, Israel se ha convertido en un estado usurpador, expansionista, hegemonista y que lanza guerras y ofensivas para a continuación reclamar un cese el fuego de la comunidad internacional.

Algunos árabes han apostado siempre por una intervención internacional a la espera de una política árabe. Han esperado varias décadas y ninguna solución ha sido hallada.

De este modo, el hecho de apostar por la comunidad internacional no ha llevado a ninguna parte.

Sólo la lucha armada ha demostrado ser la buena opción. Después de que el pueblo palestino fue expulsado de su tierra, hizo falta que los pueblos árabes se movilizaran, formaran brigadas y comenzaran la lucha contra el ocupante.

Los movimientos de resistencia en el Líbano y Palestina han logrado avances y las victorias frente al enemigo. A pesar de todos los sacrificios, los palestinos han comprendido que la resistencia es la mejor opción para sabotear el proyecto sionista.

En la actualidad, debemos buscar los medios de afrontar un peligro real que nos amenaza a todos. Hoy en día, la organización del EI ocupa grandes partes de Iraq y Siria. Este grupo se ha convertido en todo un país que controla recursos petrolíferos y presas. Posee enormes cantidades de armas y munciones. Vende petróleo y mantiene relaciones comerciales con varios países.

El EI ha cometido masacres, asesinado a prisioneros, liquidado a personas inocentes y se ha enfrentado con otros grupos armados en Alepo, Idleb y Deir Ezzor.

En Iraq, el EI mata también a todo aquel que difiere con él en el plano político o religioso. El objetivo es sembrar el terror. Masacres fueron cometidas desde el principio por el EI contra los sunníes que son a sus ojos apóstatas. En la última guerra contra los kurdos, casi un millón de sunníes han sido desplazados. El EI no respeta a nadie. Mata a árabes, kurdos, turkmenos… Destruye mezquitas, iglesias, santuarios. Este comportamiento no tiene nada que ver con el Islam.

Apoyo exterior al EI

Algunos países árabes y occidentales han apoyado al EI. Los norteamericanos han abierto la puerta a esta organización. Llamo a todos los libaneses, sirios, palestinos y árabes del Golfo a dejar de lado sus cálculos personales y a pensar en que este peligro amenaza a todos: sunníes, shiíes, drusos, cristianos, yazidis y otros.

Que nadie pretenda que se trata de una guerra confesional en la región. Es la guerra del espíritu takfiri contra el Otro. El EI busca eliminar y matar a todo el mundo, filmando además sus masacres para sembrar el máximo de terror entre las poblaciones. Hay que tener en cuenta que una buena parte de la causa del avance del EI es mediática.

Combatir al EI

¿Qué hacer pues? ¿Cómo reaccionar? ¿Vamos a pedir ayuda extranjera? Cabe recordar, en este sentido, que cuando el EI invadió la ciudad de Mosul y las provincias de Nínive, Salahuddin y Diyala la comunidad internacional y la Administración estadounidense no reaccionaron.

Los cristianos del Líbano deben saber que en caso de amenaza para ellos, EEUU hará lo mismo que Francia con los cristianos de Iraq. Francia ha abierto sus puertas a los refugiados cristianos.

Fue sólo cuando el EI llegó a las puertas de Erbil, de este Kurdistán que significa mucho para los norteamericanos y los israelíes, que la comunidad internacional se movilizó.

¿Esperáis una acción de éstos? ¿O bien de la Liga Árabe? ¿Esperáis una unanimidad nacional para hacer frente a este peligro?

 

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Los pueblos de la región están interesados en la lucha contra el EI. Nosotros, en tanto que libaneses, debemos admitir que esta amenaza es inminente. De un día a otro, la situación en Iraq ha cambiado. El EI es una amenaza para Iraq y Siria, pero también es un peligro para todos los demás países de la región.

La retirada de Hezbolá: un pretexto ilógico

Algunos afirman que la solución a esta amenaza reside en la retirada de Hezbolá de Siria. ¿Acaso la amenaza del EI será eliminada si Hezbolá se retira de Siria? Este debate no lleva a ninguna parte. Es toda la región la que está en peligro.

La responsabilidad nacional de movilizarnos y proteger las regiones libanesas nos incumbe a todos.

Despliegue de la FINUL: una propuesta incoherente

Otros proponen la ampliación de la Resolución de la ONU 1701. Sin embargo, esto es una burla. Sabed que la FINUL tiene necesidad de la protección de la población. ¿Son ellos capaces de protegernos?

Son la Resistencia y el Ejército los que protegen el Sur del Líbano. ¿Cómo creer, pues, que las fuerzas de la ONU son capaces de asegurar la protección de la Bekaa y el norte del Líbano?

El distanciamiento, una política errónea

Otros han planteado la política de distanciamiento del Líbano. Si el EI llega a la frontera del país ¿Acaso estaremos al abrigo de sus ataques a causa de la política de distanciamiento? Se conspira contra el Ejército libanés y las autoridades libanesas rehúsan hablar con las autoridades sirias. Justo porque se aplica esta política.

La lógica es que cuando un peligro existencial amenaza un país o una entidad, la proridad es entonces la lucha contra ese peligro y no exponer al pueblo a un genocidio.

Llamamiento a los libaneses

Llamo a todos los libaneses a comprender que vuestro país hace frente a una amenaza existencial. Para hacer frente a la misma hace falta dar prueba de seriedad, fidelidad y sacrificio.

He aquí algunos puntos fuertes para hacer frente a este peligro:

1 – El Ejército y las fuerzas de seguridad. Hezbolá saluda toda ayuda y oferta de ayuda al Ejército. Un apoyo popular, moral y financiero es necesario para fortalecerlo. El Estado debe ponerse al lado del Ejército para recuperar a nuestros soldados secuestrados.

2 – El gobierno actual es la única institución activa hoy. Este gobierno es uno de los factores de fuerza.

3 – Es necesario detener las provocaciones confesionales, como en el caso de Ersal. Cesad los ataques contra Hezbolá por el tema de Ersal. Los que llevan a cabo provocaciones confesionales en el Líbano deben ser juzgados porque es su efecto es el mismo que el de los coches bomba.

4 – Reconciliaciones regionales. La población de Ersal no tiene nada que ver con el Frente al Nusra o el EI. La población de Ersal, Labweh y Nabi Uzman deben reconciliarse.

5 – El tratamiento del tema de los desplazados sirios. El Líbano y Siria deben tratar el tema de los refugiados sirios y su regreso a su país. En Siria hay muchas regiones a las que los desplazados pueden regresar.

6 – Ambos países deben tratar el tema del fortalecimiento de la frontera común.

7 – La elección presidencial es importante porque el nombramiento de un presidente y la reactivación de las instituciones del Estado refuerzan al Líbano. El campo del 8 de Marzo posee un candidato y uno solo. Cesad de perder el tiempo. Que nadie espere una decisión exterior en el tema del presidente libanés.

He aquí una lista de ideas propuestas para proteger al Líbano. Vamos a debatirlas. Estamos dispuestos a sacrificarnos por nuestro país. Es una batalla existencial y estamos dispuestos a afrontarla. Si la resistencia hubiera esperado a una unanimidad nacional para actuar, Israel habría llegado hasta el norte del Líbano.

Es fácil vencer al EI. El combate contra Israel es más difícil. Somos capaces de hacerle frente con éxito. Este grupo no tiene futuro en la región si los iraquíes, los sirios, los libaneses y otros asumen su responsabilidad.

Con ocasión de la victoria de Julio, llamo a una posición nacional, institucional y popular. Sabed que tenemos los medios para lograr una victoria sobre el EI.

Cabe señalar que si todo el mundo rehúsa hacer frente a sus responsabilidades, Hezbolá asumirá las suyas. Estamos dispuestos a cooperar con todas las fuerzas libanesas que estén dispuestos a hacer frente a esta amenaza.

Nosotros no pensamos hacer las maletas y abandonar el Líbano. Es aquí donde hemos nacido y cuando las circunstancias nos llaman al combate, estamos dispuestos a luchar. Y sólo en ese caso saldremos victoriosos.

Fuente: Al-Manar

Extraído de: Tribulaciones Metapolíticas

samedi, 23 août 2014

What Have We Accomplished in Iraq?

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What Have We Accomplished in Iraq?

We have been at war with Iraq for 24 years, starting with Operations Desert Shield and Storm in 1990. Shortly after Iraq’s invasion of Kuwait that year, the propaganda machine began agitating for a US attack on Iraq. We all remember the appearance before Congress of a young Kuwaiti woman claiming that the Iraqis were ripping Kuwaiti babies from incubators. The woman turned out to be the daughter of the Kuwaiti ambassador to the US and the story was false, but it was enough to turn US opposition in favor of an attack.

This month, yet another US president – the fourth in a row – began bombing Iraq. He is also placing US troops on the ground despite promising not to do so.

The second Iraq war in 2003 cost the US some two trillion dollars. According to estimates, more than one million deaths have occurred as a result of that war. Millions of tons of US bombs have fallen in Iraq almost steadily since 1991.

What have we accomplished? Where are we now, 24 years later? We are back where we started, at war in Iraq!

The US overthrew Saddam Hussein in the second Iraq war and put into place a puppet, Nouri al-Maliki. But after eight years, last week the US engineered a coup against Maliki to put in place yet another puppet. The US accused Maliki of misrule and divisiveness, but what really irritated the US government was his 2011 refusal to grant immunity to the thousands of US troops that Obama wanted to keep in the country.

Early this year, a radical Islamist group, ISIS, began taking over territory in Iraq, starting with Fallujah. The organization had been operating in Syria, strengthened by US support for the overthrow of the Syrian government. ISIS obtained a broad array of sophisticated US weapons in Syria, very often capturing them from other US-approved opposition groups. Some claim that lax screening criteria allowed some ISIS fighters to even participate in secret CIA training camps in Jordan and Turkey.

This month, ISIS became the target of a new US bombing campaign in Iraq. The pretext for the latest US attack was the plight of a religious minority in the Kurdish region currently under ISIS attack. The US government and media warned that up to 100,000 from this group, including some 40,000 stranded on a mountain, could be slaughtered if the US did not intervene at once. Americans unfortunately once again fell for this propaganda and US bombs began to fall. Last week, however, it was determined that only about 2,000 were on the mountain and many of them had been living there for years! They didn’t want to be rescued!

This is not to say that the plight of many of these people is not tragic, but why is it that the US government did not say a word when three out of four Christians were forced out of Iraq during the ten year US occupation? Why has the US said nothing about the Christians slaughtered by its allies in Syria? What about all the Palestinians killed in Gaza or the ethnic Russians killed in east Ukraine?

The humanitarian situation was cynically manipulated by the Obama administration —  and echoed by the US media — to provide a reason for the president to attack Iraq again. This time it was about yet another regime change, breaking Kurdistan away from Iraq and protection of the rich oil reserves there, and acceptance of a new US military presence on the ground in the country.

President Obama has started another war in Iraq and Congress is completely silent. No declaration, no authorization, not even a debate. After 24 years we are back where we started. Isn’t it about time to re-think this failed interventionist policy? Isn’t it time to stop trusting the government and its war propaganda? Isn’t it time to leave Iraq alone?

See the Ron Paul File

vendredi, 22 août 2014

The Global Elites Plan for a “Middle Eastern Union”

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Author: Steven MacMillan

Ex: http://journal-neo.org  

Order Out of Chaos: The Global Elites Plan for a “Middle Eastern Union”

The Middle East has been engulfed in a state of chaos for decades now, with the region becoming increasingly unstable in recent years largely due to western sponsored proxy wars. The current map of the Middle East was created in 1916 through the surreptitious Sykes-Picot agreement, a deal which divided the Ottoman-ruled territories of Syria, Iraq, Lebanon and Palestine, into areas controlled by either Britain or France. Today the chaos we see in the Middle East is the creation of Anglo-American-Israeli power, which is attempting to redraw the map to meet their present strategic and imperial objectives.

Islamic State: A Creation of US Intelligence 

The Islamic State (IS) has hit the headlines in recent months due to their latest terror campaign in Iraq, which has led to US airstrikes in the North of the country. What has been omitted from mainstream circles though is the intimate relationship between US intelligence agencies and IS, as they have trained, armed and funded the group for years. Back in 2012, World Net Daily received leaks by Jordanian officials who reported that the US military was training ISIL (as it was then known) in Jordan, before being deployed into Syria to fight against Bashar al-Assad. Francis Boyle, a Law professor at the University of Illinois, has described IS as a “covert US intelligence operation” whose objective is to “destroy Iraq as a state”.

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The strategy in the Middle East is the creation of a perpetual condition of instability and a policy of “constructive chaos”, where nation states are to be destroyed so that the map of the Middle East can be redrawn. IS provided the pretext to intervene in Iraq once again, with the intervention ensuring the oil fields in Erbil are safely in the hands of multi-national corporations – as oppose to chaotic and dysfunctional mercenaries. As well as providing the justification for the USBritain and France to “bolster” the Kurds in the North of the country, which furthers the agenda of destroying “Iraq as a state”. As the President of the Council on Foreign Relations (CFR) and Former Director of Policy Planning at the State Department, Richard Hass, wrote in an Op Ed for Project Syndicate last month:

“It is time to recognize the inevitability of Iraq’s break-up (the country is now more a vehicle for Iran’s influence than a bulwark against it) and bolster an independent Kurdistan within Iraq’s former borders.”

As I reported in June, the policy in Iraq is to split the country into 3 separate religious and ethnic mini-states: a Sunni Iraq to the West, an Arab Shia State in the East and a Free Kurdistan in the North. The objective of dividing Iraq into 3 has been discussed in neo-imperial policy circles since as far back as 1982, when Israeli journalist – who also had close connections to the Foreign Ministry in Israel – Oded Yinon, wrote an article which was published in a journal of the World Zionist Organisation, titled: “A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties”. Yinon discusses the plan for a Greater Israel and pinpoints Iraq in particular as the major obstacle in the Middle East which threatens Israel’s expansion:

“Iraq, rich in oil on the one hand and internally torn on the other, is guaranteed as a candidate for Israel’s targets. Its dissolution is even more important for us than that of Syria. Iraq is stronger than Syria. In the short run it is Iraqi power which constitutes the greatest threat to Israel (p.12)……….The dissolution of Syria and Iraq later on into ethnically or religiously unique areas such as in Lebanon, is Israel’s primary target on the Eastern front in the long run, while the dissolution of the military power of those states serves as the primary short term target.” (p.11.)

564654Yinon continues:

“In Iraq, a division into provinces along ethnic/religious lines as in Syria during Ottoman times is possible. So, three (or more) states will exist around the three major cities: Basra, Baghdad and Mosul, and Shi’ite areas in the south will separate from the Sunni and Kurdish north.”(p.12)

Israel is merely an extension of Anglo-American power and has been since its creation in 1948, so any expansion of Israeli territory is synonymous with an increase in Anglo-American hegemony in the region. Arthur James Balfour, the British Foreign Secretary from 1916 to 1919 and author of the 1917 Balfour Declaration – which declared British support for the creation of a Jewish state (Israel) in Palestine – was also a member of the Milner Group, according to CFR historian Carroll Quigley in his book the Anglo-American Establishment (p.311). The Milner Group was the precursor to the Royal Institute of International Affairs (RIIA) or Chatham House; the British arm of the CFR, with both organisations sharing the collective objective of creating an Anglo-American global empire.

The Plan for a “Middle Eastern Union”

After funding and being directly responsible for much of the chaos and instability that has been unleashed in the Middle East, western think tank strategists are proposing a centralised, sovereignty-usurping union as the solution to the problem they have created, in a classic deployment of the order out of chaos doctrine. As The New American reported last month, Ed Husain, an Adjunct Senior Fellow for Middle Eastern Studies at the CFR, compared today’s Middle East to Europe before the EU was created, and he asserted that the only solution to the ongoing violence is the creation of a “Middle Eastern Union”.  This sentiment was echoed by Hass, who compared the Middle East of today to 17th century Europe, in his article “The New Thirty Years War”. Hass proclaims that the future will likely be as turbulent unless a “new local order” emerges:

“For now and for the foreseeable future – until a new local order emerges or exhaustion sets in – the Middle East will be less a problem to be solved than a condition to be managed.”

The idea of an EU-style governing body over the Middle East is not a new concept. In 2008, the Iraqi government called for anEU-style trading bloc in the Middle East that would encompass Saudi Arabia, Iran, Kuwait, Jordan, Syria, Iraq, Turkey and later perhaps the Gulf states, in an address to the US think tank the Institute of Peace.  The President of Turkey, Abdullah Gül, was in attendance at the second meeting in 2011 along with Egemen Bağış, the ‘Minister for EU Affairs and Chief Negotiator’ at the time, who gave a speech where he described the EU as the model for the Middle East:

“We all know that the EU emerged as the most successful peace and development project of the history after a bloody war. Today, we have the very same expectations for the Middle East.’”

Whether a “Middle Eastern Union” will be created is difficult to determine at this point in history, but there is no question that the process of redrawing the map of the Middle East is well under way.

Steven MacMillan is an independent writer, researcher, geopolitical analyst and editor of The Analyst Report, especially for the online magazine “New Eastern Outlook”.

Comment la géopolitique du pétrole explique la crise en Irak

Comment la géopolitique du pétrole explique la crise en Irak

Les sunnites veulent se réapproprier des richesses qui leur échappent au bénéfice des chiites. Mais les djihadistes de l’EIIL comme les Kurdes et le pouvoir de Bagdad ont intérêt à maintenir les installations pétrolières en état de fonctionner. Au moins aussi longtemps que chaque camp espère l’emporter…

Par Gilles Bridier

Ex: http://fortune.fdesouche.com

En Irak, les conflits religieux rallumés par l’insurrection des djihadistes sunnites de l’Etat islamique en Irak et au Levant (EIIL) ont de forts relents de pétrole. Dans un pays qui puise les neuf dixièmes de sa richesse nationale dans ses réserves d’or noir, le nerf de la guerre –l’argent– passe forcément par le contrôle des puits et des pipelines.

L’Irak est redevenu une grande puissance pétrolière. Avec  des réserves évaluées à plus de 144 milliards de barils contre 265 milliards pour l’Arabie saoudite et 157 milliards pour l’Iran, il est, selon les dernières statistiques de l’Opep, l’un des pays les plus richement dotés du Moyen-Orient. Et la production, qui fut longtemps désorganisée à cause du conflit avec l’Iran, de la première guerre du Golfe au Koweit, des sanctions de l’Onu puis de l’invasion américaine, retrouve ses records d’antan.

Après avoir frôlé les 3 millions de barils/jour en moyenne l’an dernier, elle a même atteint 3,6 millions de barils/jour en février 2014, un niveau jamais atteint depuis la fin des années 70. De sorte que les exportations d’or noir, de l’ordre de 2,4 millions de barils/jour, plaçaient le pays en troisième position parmi les grands pays producteurs de pétrole derrière l’Arabie saoudite et la Russie. Mais c’était avant l’offensive djihadiste.

Et la trajectoire ascendante ne devait pas s’arrêter là, Bagdad prévoyant de pousser la production à 4 millions de barils/jour à la fin de cette année et à 5 millions un an plus tard (et même 8 millions d’ici à 2035 selon l’Agence internationale de l’énergie), le pays assurant à lui seul plus de la moitié de la progression de la production des pays de l’Opep.

 

Le sud, région stratégique aux mains des chiites

Dans un pays déstabilisé par des décennies de guerre et d’occupation, de telles richesses peuvent se transformer en un baril de poudre lorsque, pour des motifs ethniques ou religieux, une part de la population se les accapare. C’est le cas en Irak, où le pouvoir chiite a monté contre lui la population sunnite, surtout installée dans le centre du pays, et la population kurde du nord.

Car les chiites, dans le sud, occupent la région la plus stratégique pour l’industrie pétrolière. C’est là, autour de Bassorah, que sont localisées les plus grosses réserves d’or noir, et que la production est la plus importante avec 90% de l’extraction. C’est là également que se trouve le plus important terminal pétrolier du pays, par où passent 80% des exportations irakiennes. Et, conséquence logique, c’est là que le réseau de pipelines est le plus dense.

En installant à Bagdad un pouvoir chiite après le régime sunnite de l’ex-président déchu Saddam Hussein, les Etats-Unis ont en quelque sorte permis aux anciennes victimes de prendre leur revanche en profitant de la manne pétrolière.

Mais l’Etat irakien est aujourd’hui d’autant plus fragilisé que même le camp chiite est divisé, comme en témoigne la mise à l’écart du Premier ministre Nouri-al-Maliki qui, bien que contesté, briguait un troisième mandat. Ce qui ajoute aux incertitudes sur l’avenir du pays.

Au nord, la clé de l’indépendance kurde

Dans le nord, le Kurdistan est moins richement doté. Mais même si cette région autonome ne produit pour l’instant que 10% du total extrait du sous-sol irakien, les gisements autour de Kirkouk et, dans une moindre mesure, de Mossoul, intéressent les Kurdes, regroupés dans leur province autour de leur capitale Erbil. Cette richesse serait un atout pour un état indépendant tel que les Kurdes d’Irak en rêvent.

C’est pourquoi, face à l’offensive des djihadistes, les peshmergas se sont portés aux avant-postes des combats pour contenir la percée d’EIIL, et empêcher toute annexion de l’outil pétrolier. Ce qui leur conférerait une certaine légitimité pour revendiquer cet outil à leur tour.

D’ailleurs, le Kurdistan a déjà exporté directement du pétrole en s’affranchissant de la tutelle de Bagdad, en passant par le port turc de Ceyhan en Méditerranée. Il a profité par là de l’incapacité de l’Etat irakien à réagir, affaibli qu’il est à la fois par la percée des islamistes et les luttes intestines.

Des sunnites en mal de revanche

On comprend mieux ainsi, avec en toile de fond la carte pétrolière de l’Irak, les motifs de la poussée des djihadistes sunnites et la rapidité de leur progression. Tenus écartés de la manne pétrolière et de toute maîtrise d’outils stratégiques tels que les oléoducs et les terminaux, les populations sunnites du centre du pays n’avaient guère de raison de vouloir s’opposer à la progression de ces islamistes qui ont joué sur leur sentiment de frustration.

En entamant leur offensive sur le nord, où ils ont notamment conquis la ville de Mossoul, les islamistes de l’EIIL ont cherché dans un premier temps à prendre les Kurdes de vitesse avant qu’ils aient le temps de se réarmer, pour les empêcher de mettre la main sur des richesses pétrolières –ce qui constituerait le premier pas vers l’indépendance de leur région. Il s’agissait, pour l’EIIL, d’une première étape avant de déployer son offensive vers Bagdad et le sud du pays.

Les djihadistes ont notamment procédé à des actes de sabotage du pipeline historique qui, au nord, relie l’Irak à la Turquie. Mais les islamistes ont montré aussi qu’ils ne cherchaient pas à détruire systématiquement les installations pétrolières.

Quant aux Kurdes, ils ont ouvert une nouvelle voie à travers leur territoire avec l’autorisation obtenue de la Turquie pour exporter le pétrole, allant même jusqu’à affréter des pétroliers en Méditerranée. Ainsi, ils démontrent pouvoir riposter à la percée d’EIIL. Ils défient aussi les autorités chiites de Bagdad, qui considèrent que le pouvoir a seul la haute main pour organiser l’exportation de pétrole, mais en fait n’a plus les moyens de faire respecter cette règle.

Jusqu’à présent, pas d’impact sur le prix du baril

L’attention portée par toutes les parties sur la scène irakienne à tout ce qui touche l’industrie pétrolière et l’intérêt des uns et des autres à conserver des installations en état de fonctionner explique que, malgré les combats, le cours du baril ne cesse de baisser.

D’autres facteurs interviennent également pour que le marché reste bien approvisionné, selon le constat de l’AIE. Les capacités de l’Arabie saoudite pour compenser tout éventuel recul de production d’un acteur majeur, l’arrivée des pétroles de schiste d’Amérique du nord et des prévisions de baisse de la demande mondiale justifient l’actuelle sérénité du marché.

Les récentes décisions des Etats-Unis et de la France d’envoyer des armes aux combattants peshmergas pour les aider à combattre les djihadistes démontrent que les puissances occidentales ne veulent pas laisser s’installer un pouvoir islamiste radical en Irak, d’autant plus dangereux qu’il disposerait de la manne pétrolière pour se renforcer et porter le djihad au-delà des frontières. Par ailleurs, Téhéran a déjà laissé entendre que l’Iran chiite réagirait si le retour d’un pouvoir sunnite à Bagdad devait se préciser.

Dans ces conditions, rien ne dit que, s’ils se trouvaient acculés, les djihadistes en rébellion ne décideraient pas alors de s’attaquer aux installations pétrolières, aussi bien au niveau de la production que des exportations.

Mais les marchés ne semblent pas craindre à ce jour ce genre d’anticipation, une chute des approvisionnements irakiens ne mettant pas en péril la possibilité d’assurer l’équilibre offre-demande par d’autres moyens.

slate.fr

jeudi, 21 août 2014

Libye: entre nuées démocratiques et réalités tribales

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Libye : entre nuées démocratiques et réalités tribales

Bernard Lugan

Ex: L'Afrique réelle cliquez ici

Au moment où le parlement libyen appelle à une intervention étrangère "pour protéger les civils", nous pouvons lire dans le quotidien Le Monde en date du 12 août 2014 un titre insolite: "La transition en Libye est un échec, il faut la repenser".

Que s'est-il donc passé pour que la "bible des bien-pensants", ce point oméga du conformisme intellectuel français, se laisse ainsi aller à une telle constatation après avoir soutenu avec une arrogante indécence l'intervention militaire contre le colonel Kadhafi, cause directe de la situation actuelle ?
 
Le but de la guerre calamiteuse décidée par Nicolas Sarkozy était officiellement l'établissement d'un Etat de droit à la place d'un régime dictatorial. Après le lynchage du colonel Kadhafi par les islamo-mafieux de Misrata, un processus démocratique fut imposé aux nouveaux maîtres du pays. Il se mit en place à travers plusieurs élections et par la rédaction d'une Constitution. Les observateurs, à commencer par les journalistes du Monde, louèrent alors ces "avancées démocratiques", preuve de la "maturité politique" des "démocrates" libyens. La "guerre du droit" ayant été gagnée, accompagné de BHL, Nicolas Sarkozy alla ensuite sur place goûter aux félicités triomphales du "libérateur"...
 
Le résultat de ces illusions, de cet aveuglement, de ce décalage entre l'idéologie et la réalité, de cet abîme existant entre les spasmes émotionnels et les intérêts nationaux français, est aujourd'hui tragiquement observable. Les dernières structures étatiques libyennes achèvent en effet de se dissoudre dans des affrontements aux formes multiples s'expliquant d'abord par des logiques tribales. Sur ces dernières viennent, ici ou là, se greffer avec opportunisme des groupuscules islamistes soutenus par le Qatar et la Turquie.
 
Un retour au réel s'impose donc afin de tenter de sortir la Libye de l'impasse. Or, ce réel tient en quatre  points :
 
1) La Libye n'a jamais existé comme Etat de facture occidentale.

2) Le  colonel Kadhafi avait réussi à établir une réelle stabilité en se plaçant au centre, à la jonction, des deux grandes confédérations tribales de Cyrénaïque et de Tripolitaine.

3) Son assassinat a fait que, ayant perdu leur "point d'engrenage", ces deux confédérations se sont tournées sur elles-mêmes dans une logique d'affrontements tribaux régionaux ayant pour but la conquête du pouvoir dans chacune des deux grandes régions du pays éclatées en cités-milices aux intérêts tribalo-centrés.
 
4) La clé de la stabilité libyenne passe par la reconstitution du système d'alliances tribales mis en place par le colonel Kadhafi. Or, les responsables politiques libyens ne sont pas en mesure de mener cette politique car ils sont tous sont ethno-géographiquement liés par leurs origines.
 
Le seul qui, dans l'état actuel de la complexe situation libyenne pourrait jouer ce rôle de rassembleur-catalyseur est Seif al-Islam, le fils du colonel Kadhafi. Actuellement détenu avec des égards par les miliciens berbères de Zenten qui constituent le fer de lance des forces anti-islamistes en Tripolitaine, il est soutenu par les Warfallah, la principale tribu de Tripolitaine, par les tribus de la région de Syrte, par sa propre tribu et il pourrait l'être également par les Barasa, la tribu royale de Cyrénaïque, sa mère étant Barasa. Autour de lui pourrait être refondée l'alchimie politico-tribale, le pacte social tribal de Libye.

Mais pour cela il importe que la CPI, perçue en Afrique comme un instrument du néocolonialisme "occidental",  lève le mandat d'arrêt de circonstance lancé contre lui.

Les djihadistes jouent avec les nerfs de leurs alliés mondialistes

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Les djihadistes jouent avec les nerfs de leurs alliés mondialistes

Auteur : Emilie Defresne
 

La duplicité des gouvernements Occidentaux et plus particulièrement de celui des USA ne fait aucun doute dans l’expansion du djihadisme. Sans remonter aux sources que sont la Bosnie, le Kosovo ou l’Afghanistan, il suffit d’écouter ce qu’en disait le député de Paris, proche de Nicolas Sarkozy, Claude Goasguen, sur BFMTV le 11 août dernier:

« l’année dernière M. Obalma soutenait les djihadistes contre M. Assad, puis les djihadistes sont passés en Irak et maintenant M. Obama combat les djihadistes, c’est d’une logique toute américaine dans laquelle nous sommes entraînés »

Cela est un secret de polichinelle sauf pour les sourds et les aveugles. Ce secret de polichinelle à peine levé, voilà que la grosse caisse des médias et la propagande américaine voudrait nous faire croire que les Kurdes sont les seuls combattants qui se battent contre l’Etat Islamique.

La vérité ne vient pas forcément de là où on l’attendrait. Un journaliste a pu effectuer un reportage sur l’Etat Islamique de l’intérieur. Selon les extraits en français que nous en propose RTS, « les combats faisaient rage hier autour de la ville de Racca entre l’Armée syrienne et les adeptes du califat de l’Etat Islamique. ».

« L’Etat islamique est à cheval sur deux pays: l’Irak et la Syrie et le tournage s’effectue évidemment sous la très haute surveillance des djihadistes. Un Etat Islamique qui a aboli la frontière sous son contrôle entre la Syrie et l’Irak. Je suis tunisien et c’est la première fois que j’entre en Irak sans passeport [témoigne un énergumène muni d'un sabre qu'il agite], voici nos passeports, ce sont nos armes. (…) Aux dernière nouvelles les combats faisaient rage hier autour de la ville de Raqqa entre l’Armée syrienne et les adeptes du califat de l’Etat Islamique. »

Fin juillet, en effet, les combats faisaient rage autour de la ville syrienne de Raqqa. Il s’agissait de:

 « la première confrontation de cette ampleur entre les djihadistes de l’Etat islamique (EI) et le régime syrien. Au moins 62 personnes, en majorité des combattants, ont péri dans les affrontements opposant depuis 24 heures l’armée syrienne aux djihadistes de l’Etat islamique (EI) dans le nord du pays, selon l’Observatoire syrien des droits de l’Homme (OSDH) ». 

Depuis que les Kurdes soutenus par l’aviation américaine combattent les djihadistes en Irak, les combats en Syrie ont-ils cessés ? L’Armée syrienne d’Al Assad est-elle soutenue par l’aviation américaine dans sa lutte contre l’EI ? La France envoie-t-elle des armes à Al Assad pour protéger les chrétiens syriens? Non! Bien sûr que non! Les combats n’ont pas cessé en Syrie depuis que les Kurdes et les Américains sont entrés en guerre en Irak, les chrétiens de Syrie sont tout autant persécutés qu’en Irak et l’armée américaine continue comme avant à laisser libre cours à l’armée de l’Etat Islamique en Syrie:

« Parallèlement à leur offensive en Irak, les djihadistes de l’Etat Islamique (EI) maintiennent la pression sur la Syrie. Ils ont pris le contrôle ce mercredi de six villages dans la province septentrionale d’Alep à l’issue de combats qui ont fait près de 40 morts, rapporte l’Observatoire syrien des droits de l’Homme (OSDH). « 

En réalité, si on observe attentivement les événements, les Américains qui cornaquent depuis le début de la guerre en Syrie les djihadistes, pensaient que ceux-ci allaient poursuivre leur avancée vers Bagdad, tandis que sagement les 950.000 hommes de l’Armée Irakienne, toujours contrôlée par l’armée américaine chargée de la former (SIC!), gardent l’arme au pied.

Mais s’il est facile de mettre le feu, il est plus difficile de contrôler son expansion!

Car voilà que de façon inattendue la marche quasi-triomphale vers Bagdad des seulement 10.000 djihadistes qui ne trouvaient aucun obstacle sur leur route, a brusquement changé de cap. Cette petite armée s’est retournée contre les Kurdes dont les territoires servaient de refuge aux chrétiens pourchassés, ce qui leur était inadmissible. Ils ont donc suspendu leur avancée en direction de la capitale irakienne, le temps de régler leur compte aux Kurdes, qui, de plus, n’adhèrent pas à la même secte musulmane qu’eux! Les Kurdes, chers à feu Madame Mitterrand, étant les alliés traditionnels des mondialistes, Obama s’est retrouvé devant le délicat dilemme de choisir entre les Kurdes et les djihadistes de l’EI. Il a trouvé sage de partager la poire en deux, laissant libre court à leur haine en Syrie et soutenant, juste ce qu’il faut, les Kurdes en Irak.

Les Chrétiens, dans cette histoire, n’ont servi que de prétexte pour justifier l’attitude contradictoire des Américains en Syrie par rapport à l’Irak. Comme si en Syrie les Chrétiens ne subissaient pas et depuis bien plus longtemps les persécutions abominables des alliés de l’Occident!


- Source : Emilie Defresne
 
 

jeudi, 31 juillet 2014

Grand Moyen-Orient: une accélération du redécoupage prévu

Grand Moyen-Orient : une accélération du redécoupage prévu. Par François Montgisard

Grand Moyen-Orient: une accélération du redécoupage prévu

par François Montgisard

Ex: http://fr.novopress.info

Le Moyen-Orient, chacun le sent bien, est la zone géographique d’où la prochaine guerre mondiale pourrait éclater.

L’actualité dans cette région nous a montré une avancée étonnamment rapide des forces armées de l’ « Emirat islamique de l’Irak et du Levant » (EIIL en français). L’événement rappelle un peu la rapidité soudaine et « inexpliquée » de l’avance des troupes croato-musulmanes en Bosnie, dans les années 1990 face aux Serbes, jusqu’à des lignes que l’on a su peu après avoir été négociées pour laisser la moitié du pays à chaque belligérant.


L’on sait les Américains très attentifs au Sud-Ouest asiatique, région comprenant Israël et le golfe Persique. Afin d’y maintenir et d’y développer leur influence, ils y ont envisagé, ce n’est pas nouveau, la vieille idée romaine du « divide ut regnes » (diviser pour régner). De nouvelles frontières ont été planifiées par les services de Washington pour fractionner ce grand Moyen-Orient. Dans cette optique, deux cartes ont été portées à la connaissance du public. Ces deux cartes partent de la même logique : faire éclater les Etats musulmans les plus puissants de la région en des unités plus petites, utilisant pour cela les clivages religieux, ethniques, tribaux, etc. :

– La première a été publiée en juin 2006 dans la revue The Armed Forces Journal, sous la signature du lieutenant-colonel « à la retraite » Ralph Peters. Elle montre la zone comprise entre la Méditerranée et le Pakistan.

Grand Moyen-Orient : une accélération du redécoupage prévu. Par François Montgisard

– La deuxième (image en Une) a été publiée dans le New York Times du 28 septembre 2013 par la géopoliticienne Robin Wright, travaillant pour le « United States Institute of Peace », organisme dont l’intitulé à lui seul fleure bon la manipulation des foules. La zone à fractionner s’étend ici de la Libye au golfe Persique.

Les deux cartes se recoupent, comme par hasard, sur la partie la plus stratégiquement sensible de la région : celle comprenant le « Croissant fertile » et la péninsule Arabique. La logique, on l’a vu, est la même : diviser les Etats musulmans (et eux seuls) en utilisant les fractures les plus… utilisables. Tout porte à croire que les différences entre les deux scénarios sont des actualisations, des corrections, tenant compte des faits dont les véritables auteurs ont pris conscience au fur et à mesure de la mise en place de cette stratégie.

Tout avait « bien » commencé par l’occupation de l’Irak en mars 2003 (on se doute bien que la carte publiée en 2006 avait été conçue bien avant cette date). La haine entre sunnites et chiites, consciencieusement entretenue par le gouvernement chiite majoritaire accaparant largement plus que sa part au profit de sa communauté, a achevé la cassure de l’Irak ; cassure en trois, sunnites et chiites étant trop occupés à s’entretuer pour ne pas laisser les Kurdes devenir indépendants de fait.

Par contre, le plan buta ensuite sur la résistance inattendue du régime syrien. Il a donc fallu lui concéder (voir la deuxième carte), en plus du réduit alaouite prévu, toute la tranche occidentale du pays, dont Damas ; peu importe. En Syrie comme en Irak, gouvernementaux et antigouvernementaux laissent aujourd’hui les Kurdes se gouverner comme ils le souhaitent.

Cependant, et l’on rejoint ici l’actualité, il est apparu possible et souhaitable pour les services américains d’unir les sunnites des deux Etats arabes fractionnés en un seul bloc, le « Sunnistan », tant pour renforcer ces deux groupes rebelles à leur gouvernement central que pour transcender les frontières et donc mieux les effacer. Nous en sommes donc à la phase où les services américains (et israéliens) favorisent la constitution au plus vite de ce « Sunnistan » regroupant les Arabes sunnites du nord de la zone. Ils aident donc par tous les moyens l’armée de l’émirat islamique (la flamme du religieux est aujourd’hui plus dynamisante que celle de l’ethnie) de l’Irak et du Levant.

Les prochaines étapes sont très probablement inscrites dans les cartes publiées, et plus exactement dans la deuxième, celle de Robin Wright. Pour les Kurdes, il conviendra d’unir les Etats de fait du nord de la Syrie et du nord de l’Irak en une nation unique, mais discrètement, progressivement, de crainte de provoquer une réaction de la Turquie voisine, ultra-sensible sur la question. « On » cherchera aussi à re-diviser en deux le Yémen, que l’on avait un peu oublié, selon la partition historique créée par l’occupation britannique du Sud.

L’Arabie Saoudite, quant à elle, a été prévue éclatée en cinq blocs, tant dans la première que dans la deuxième carte. Mais plus les mêmes. A l’origine (carte de 2006), le royaume des Saoud était délesté :

-  du nord-ouest donné à la Jordanie (après acceptation du roi Abdallah II de recueillir des Palestiniens de Cisjordanie ?) ;

-  plus grave : de la province côtière du Hassa, ô combien importante, puisqu’elle recèle la quasi-totalité des ressources pétrolières connues du royaume, afin de constituer un Etat arabe chiite avec le sud de l’Irak et le sud-ouest de l’Iran arabophone ;

-  plus dramatique encore sous l’aspect du prestige, d’un « Vatican islamique », contenant notamment les deux villes saintes pour l’islam de La Mecque et de Médine, et confié à une présidence tournante des différents groupes musulmans : dont les chiites détestés (arabes ou pire encore iraniens), les Indonésiens mangeurs de porc, les faux Arabes du Maghreb, ou encore les Noirs descendants d’esclaves ;

-  pour faire bonne mesure, d’une portion du sud-ouest pour agrandir le Yémen

Pour ce royaume, il semble que les donneurs d’ordres aient compris que les Saoudiens, même lorsqu’ils sont opposés à la caste princière qui régit le royaume, se sentiraient humiliés d’être agrégés à des Etats voisins qu’ils regardent de haut : la Jordanie que les Saoud ont repoussée, l’Irak brisé par la guerre, le Yémen arriéré économiquement. La nouvelle carte maintient l’objectif de la partition de l’Arabie Saoudite en cinq entités, mais, cette fois, il transparaît clairement que la logique tribale a été privilégiée. Il est même prévu de priver Ryad de son dernier débouché sur la mer.

Reste à réaliser ce plan. Aux dernières nouvelles, le clan familial des princes saoudiens, puissant, très soudé (condition essentielle de survie dans la région) et bien conscient de ce qu’on lui prépare, n’a pas du tout l’intention de se laisser faire…

François Montgisard
Docteur en droit

Auteur de Ces Français qui gouvernèrent le monde

NDLR :

Pour la première carte, lire aussi un article de Mahdi Darius Nazemroaya
Israël en Libye : Préparer l’Afrique au « choc des civilisations »
http://www.silviacattori.net/spip.php?article2266

Cet article, qui date de 2011, donne surtout un certain éclairage sur la guerre menée par l’OTAN contre la Libye et sur les intentions réelles des Etats-Unis dans la perspective d’une dominance entière.

Pour la deuxième carte, se reporter à un article publié le 25/10/2013 par Jeune Afrique qui préfigure ce que serait le nouveau Moyen-Orient fragmenté sous le coup de dynamiques multiples, le tout sous l’œil dominateur des USA.
http://www.jeuneafrique.com/Article/JA2753p060.xml0/ 

Se reporter aux deux articles avec les liens ci-dessus pour avoir une meilleure lisibilité des deux cartes.

Source : Polémia.

samedi, 26 juillet 2014

Striscia di Gaza

 

jeudi, 24 juillet 2014

L`Isis? Un boomerang in faccia agli Usa

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L`Isis? Un boomerang in faccia agli Usa

L`avanzata del fondamentalismo sunnita da Mosul alle porte di Baghdad per formare un`entità statale islamica in Iraq e in parte della Siria

Lorenzo Moore

In una decina di giorni appena la marcia degli integralisti sunniti dell’Isis - il gruppo che si batte appunto per insediare sui territori dello storico califfato di Baghdad (dal Mediterraneo al Golfo, Kuwait incluso) uno “Stato islamico dell’Iraq e della Siria” – è giunta a ridosso della capitale irachena dopo aver operato assedi e conquiste di intere provincie dell’Iraq del nord, a stento contenuta nelle regioni più periferiche settentrionali dalle milizie curde, da tempo allineate ai desiderata di Washington.
Non è peregrino qui ricordare che per abbattere il regime ba’athista di Saddam Hussein (con la scusa di inesistenti armi di distruzione di massa) le forze di invasione angloamericane, per giungere da Bassora a Baghdad ci misero 22 giorni.
Né è inutile rammentare che di fatto, nel concreto, l’Isis non sia altro che l’ennesimo gruppo integralista sunnita utilizzato dai regimi feudali del Golfo – e indirettamente dagli statunitensi – per  raggiungere lo scopo di “federalizzare” l’Iraq già ba’athista in tre macroregioni nazionali-religiose,  curda a nord, sunnita al centronord e sciita al centrosud. Un obiettivo, diciamo così, allargato due anni fa al finanziamento e all’innesco della guerra civile contro la Siria, l’ultimo bastione sociale e nazionalista arabo ba’athista.
L’Isis, che è attualmente egemone tra i gruppi terroristi islamici più radicali, avendo sul terreno spazzato via o comunque reso inoffensivo l’altro gruppo inizialmente più attivo nella Siria del nord, al Nusra, appare, secondo fonti di intelligence statunitensi, e in particolare nell’analisi del think-tank Usa, Institute for the Study of War (ISW), che ha documentato lo sviluppo decennale (dal 2004, dopo il caos seguito all’invasione atlantica) del gruppo islamico, che pretende rifondare un califfato basato sui canoni della Sharia, inizialmente formato da quadri medi sunniti già ba’athisti. Nel rapporto dell’ISW viene tra l’altro messa in rilievo la potente capacità di “relazioni” e di “stampa e propaganda” dell’Isis e viene ripresa e pubblicizzata una sua ponderosa “nota” che riepiloga la sua forza, la sua organizzazione, le sue azioni sul terreno vantate e presumibilmente reali.
In sintesi l’Isis auto dichiara di avere una forza, attuale, di 15.000 combattenti, dei quali la gran parte arruolati nella jihad non solo in Iraq o Siria, ma nei diversi Paesi mediorientali ed europei (2000 circa , secondo una stima, quelli arruolati nel nostro continente).
Nella nota dell’Isis estratta dal centro studi Usa, si focalizza il periodo tra il novembre 2012 e lo stesso mese del 2013.
L’Isis si attribuisce 9540 attacchi in Iraq, 1083 assassinii, 4000 attentati circa, la liberazione di centinaia di prigionieri reclutati dai fondamentalisti dalle carceri irachene.
 
L’ISW statunitense riporta un commento di Nigel Inkster, già vicecomandante del MI6 britannico che sottolinea l’importanza e la solidità organizzativa, militare e politica, e finanziaria del gruppo jihadista sunnita. Negli Usa il parlamentare Michael McCaul, presidente del comitato congressuale di Sicurezza Nazionale, ha definito l’emergere dell’Isis – che controlla ormai sia Mosul (seconda città irachena) che Tikrit, “la più grave minaccia dopo l’11 settembre 2001”. Non a caso un pastore-missionario evangelico, Elijak Abraham, dal canto suo ha dichiarato che l’Isis “è un’estensione di al Qaida). C’è da notare che con la sua brutale avanzata in Iraq (lo stesso Isis ha infatti diffuso ferocissimi immagini e filmati, con atrocità commesse ai danni, in particolare, delle minoranze religiose: è ormai generale, ad esempio, il doppio esodo dei cristiani caldei nell’enclave di Ninive e degli sciiti nei quartieri di Baghdad) il gruppo terrorista radicale ha comunque indebolito il suo dominio nella provincia siriana a ridosso della frontiera irachena.
Al contrario di quanto  appare dalle reazioni “stupite” delle istituzioni di sicurezza nazionale statunitensi e britanniche, di fatto e in realtà l’Isis appare dunque il risultato-boomerang della vergognosa aggressione angloamericana.
Il cosiddetto Stato Islamico di Iraq e Siria è infatti una fedele “trasposizione” sul terreno del progetto Usa di trasformazione degli Stati nazionali siriano e iracheno nelle tre diverse identità statali territoriali sunnita, sciita e curda.
Un divide et impera geopolitico immaginato dagli Usa su diretto “consiglio” di Israele.
 


19 Giugno 2014 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=23506

Israël et l'Arabie saoudite : une alliance forgée dans le sang des Palestiniens

Israël et l'Arabie saoudite : une alliance forgée dans le sang des Palestiniens

Auteur : David Hearst   
 

 

Cette alliance israélo-saoudienne est forgée dans le sang, le sang palestinien, le sang, ce dimanche, de plus de 100 victimes dans Shejaiya, écrit David Hearst.

L'Arabie saoudite est dirigée par une clique de vieillards cacochymes, dignes représentants d'une caste qui s'accapare la rente pétrolière et se maintient au pouvoir par tous les moyens...

Il y a beaucoup de mains derrière l'attaque de l'armée israélienne sur la bande de Gaza. L'Amérique n'est pas malheureuse de voir le Hamas devoir supporter tant de coups. Alors que les images des scènes de carnage dans les rues de Shejaiya venaient d'être diffusées, John Kerry a déclaré sur ??Meet NBC le même jour qu'Israël avait le droit de se défendre, et l'ambassadeur américain Dan Shapiro a déclaré sur la chaîne israélienne Canal 2 que les États-Unis feraient en sorte que les forces modérées soient [après le conflit] dominantes dans la bande de Gaza, ce qui veut dire [qu'Israël amènerait dans ses fourgons] l'Autorité palestinienne.

L'Égypte n'est pas non plus écrasée de douleur. Son ministre des Affaires étrangères Sameh Shoukry a tenu le Hamas pour responsable de la mort des civils, après que le mouvement ait rejeté le cessez le feu [concocté par l'Égypte et Israël et totalement à l'écart du Hamas - NdT].

Un troisième partenaire non déclaré dans cette alliance contre nature a cependant donné un feu-vert à Netanyahu, le couvrant à l'avance pour une opération militaire d'une telle férocité. Nous ne parlons pas d'un allié aussi impuissant que les États-Unis, car cette autorisation ne peut venir que d'un État arabe.

L'attaque sur Gaza a été lancée avec une approbation royale saoudienne.

Ce mandat royal n'est rien de moins qu'un secret de polichinelle en Israël et l'ex-ministre de la défense comme celui qui est en fonction en parlent de façon très ouverte. L'ancien ministre israélien de la Défense Shaul Mofaz a surpris le présentateur sur Canal 10 en disant qu'Israël devait attribuer un rôle à l'Arabie saoudite et aux Émirats arabes unis dans la démilitarisation du Hamas. Interrogé sur ce qu'il entendait par là, il a ajouté que des fonds de l'Arabie saoudite et des Émirats devraient être utilisés pour reconstruire Gaza une fois le Hamas anéanti.

Amos Gilad, homme-clé au ministère israélien de la défense dans les relations avec l'Égypte de Moubarak et aujourd'hui directeur du département israélien des relations politico-militaires, a déclaré récemment à l'universitaire James Dorsey : « Tout est souterrain, rien n'est public, mais notre coopération sécuritaire avec l'Égypte et les États du Golfe est unique. C'est la meilleure période de sécurité et de relations diplomatiques avec les pays arabes ».

Les félicitations sont réciproques. Le roi Abdallah a fait savoir qu'il avait téléphoné au président Abdel Fattah El-Sisi pour approuver une initiative égyptienne de cessez-qui n'avait même pas soumise au Hamas, ce qui a incité des analystes cités par le Jerusalem Post à se demander si un cessez-le feu avait été sérieusement proposé.

Le Mossad et les responsables saoudiens du renseignement se réunissent régulièrement. Les deux côtés se sont concertés lorsque l'ancien président égyptien Mohamed Morsi était sur ??le point d'être déposé en Égypte, et ils sont main dans la main en ce qui concerne l'Iran, à la fois dans la préparation d'une attaque israélienne qui traverserait l'espace aérien saoudien, et dans le sabotage du programme nucléaire.

Il y a même été dit de bonne source que les Saoudiens financent l'essentiel de la très coûteuse campagne d'Israël contre l'Iran.

Pourquoi l'Arabie Saoudite et Israël font-ils à ce point bon ménage ? Pendant des décennies, les deux pays éprouvaient une sensation identique quand ils regardaient autour d'eux : la peur. Leur réaction a été similaire. Chacun sentait qu'ils ne pouvaient se prémunir contre ses voisins en les envahissant (Liban, Yémen) ou par le financement de guerres et coups d'État (Syrie, Égypte, Libye). Ils ont des ennemis ou rivaux en commun : l'Iran, la Turquie, le Qatar, le Hamas dans la bande de Gaza, et les Frères musulmans ailleurs. Et ils ont des alliés communs : les lobbys militaro-industriels américains et britanniques, l'homme fort du Fatah et l'atout des États-Unis Mohammed Dahlan qui a essayé autrefois de prendre le contrôle de Gaza et qui serait probablement prêts à le faire à nouveau.

La différence aujourd'hui, c'est que pour la première fois dans l'histoire de leurs deux pays, une coordination militaire a été mise en place. Le prince Turki, neveu du roi Abdallah, est le visage public de ce rapprochement rendu visible par la publication d'un livre sur l'Arabie écrit par un universitaire israélien. Le prince s'est rendu à Bruxelles en mai pour rencontrer le général Amos Yadlin, l'ex-chef du renseignement israélien qui a été inculpé par un tribunal en Turquie pour son rôle dans l'abordage du Mavi Marmara.

On pourrait faire valoir qu'il n'y a rien de sinistre dans l'implication du prince Turki dans le débat israélien et que ses motivations sont à la fois paisibles et louables. Le prince est un fervent partisan d'une initiative de paix proposée par le roi saoudien Abdallah. L'Initiative de paix arabe soutenue par 22 États arabes et 56 pays musulmans aurait effectivement été une base pour la paix si Israël ne l'avait pas ignoré il y a quelques 12 ans.

Le prince Turki est très lyrique sur les perspectives de paix dans un article publié par Haaretz. Il y écrit : « Et quel plaisir ce serait d'être en mesure d'inviter non seulement les Palestiniens mais aussi les Israéliens que j'allais rencontrer de venir me rendre visite à Riyad, où ils pourraient alors visiter ma maison ancestrale dans Dir'iyyah, qui a souffert aux mains de Ibrahim Pacha le même sort qu'a subi Jérusalem aux mains de Nabuchodonosor et des Romains ».

C'est les moyens utilisés, pas la fin en soi qui exposent le véritable coût humain de ces alliances. La promotion par le prince Turki de l'Initiative de paix arabe se fait au prix de l'abandon par le royaume de son soutien historique à la résistance palestinienne.

L'analyste saoudien Jamal Khashogji fait ce même constat quand il parle en langage codé du nombre d'intellectuels qui attaquent la notion de résistance : « Malheureusement, le nombre de ces intellectuels ici en Arabie Saoudite est plus élevé que la moyenne. Si une telle tendance se poursuit, elle va détruire la louable prétention du royaume d'avoir soutenu et défendu la cause palestinienne depuis l'époque de son fondateur, le roi Abd Al-Aziz Al-Saoud ».

La paix serait en effet la bienvenue pour tout le monde, et surtout pour Gaza en ce moment. Mais les moyens par lesquels les alliés d'Israël en Arabie saoudite et l'Égypte veulent y arriver, en encourageant Israël à donner au Hamas un coup fatal, amènent à douter de ce qui se trame vraiment. Le père de Turki, le roi Faisal bin Abdulaziz se retournerait dans sa tombe s'il voyait ce que son fils fait en son nom.

Cette alliance israélo-saoudienne est forgée dans le sang, le sang palestinien, le sang, ce dimanche, de plus de 100 victimes dans Shejaiya.


- Source : David Hearst

samedi, 19 juillet 2014

Saudi Complicity in the Rise of ISIS

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The Blunders of Prince Bandar

Saudi Complicity in the Rise of ISIS

by PATRICK COCKBURN

How far is Saudi Arabia complicit in the Isis takeover of much of northern Iraq, and is it stoking an escalating Sunni-Shia conflict across the Islamic world?

Some time before 9/11, Prince Bandar bin Sultan, once the powerful Saudi ambassador in Washington and head of Saudi intelligence until a few months ago, had a revealing and ominous conversation with the head of the British Secret Intelligence Service, MI6, Sir Richard Dearlove. Prince Bandar told him: “The time is not far off in the Middle East, Richard, when it will be literally ‘God help the Shia’. More than a billion Sunnis have simply had enough of them.”

The fatal moment predicted by Prince Bandar may now have come for many Shia, with Saudi Arabia playing an important role in bringing it about by supporting the anti-Shia jihad in Iraq and Syria. Since the capture of Mosul by the Islamic State of Iraq and the Levant (Isis) on 10 June, Shia women and children have been killed in villages south of Kirkuk, and Shia air force cadets machine-gunned and buried in mass graves near Tikrit.

In Mosul, Shia shrines and mosques have been blown up, and in the nearby Shia Turkoman city of Tal Afar 4,000 houses have been taken over by Isis fighters as “spoils of war”. Simply to be identified as Shia or a related sect, such as the Alawites, in Sunni rebel-held parts of Iraq and Syria today, has become as dangerous as being a Jew was in Nazi-controlled parts of Europe in 1940.

There is no doubt about the accuracy of the quote by Prince Bandar, secretary-general of the Saudi National Security Council from 2005 and head of General Intelligence between 2012 and 2014, the crucial two years when al-Qa’ida-type jihadis took over the Sunni-armed opposition in Iraq and Syria. Speaking at the Royal United Services Institute last week, Dearlove, who headed MI6 from 1999 to 2004, emphasised the significance of Prince Bandar’s words, saying that they constituted “a chilling comment that I remember very well indeed”.

He does not doubt that substantial and sustained funding from private donors in Saudi Arabia and Qatar, to which the authorities may have turned a blind eye, has played a central role in the Isis surge into Sunni areas of Iraq. He said: “Such things simply do not happen spontaneously.” This sounds realistic since the tribal and communal leadership in Sunni majority provinces is much beholden to Saudi and Gulf paymasters, and would be unlikely to cooperate with Isis without their consent.

Dearlove’s explosive revelation about the prediction of a day of reckoning for the Shia by Prince Bandar, and the former head of MI6′s view that Saudi Arabia is involved in the Isis-led Sunni rebellion, has attracted surprisingly little attention. Coverage of Dearlove’s speech focused instead on his main theme that the threat from Isis to the West is being exaggerated because, unlike Bin Laden’s al-Qa’ida, it is absorbed in a new conflict that “is essentially Muslim on Muslim”. Unfortunately, Christians in areas captured by Isis are finding this is not true, as their churches are desecrated and they are forced to flee. A difference between al-Qa’ida and Isis is that the latter is much better organised; if it does attack Western targets the results are likely to be devastating.

The forecast by Prince Bandar, who was at the heart of Saudi security policy for more than three decades, that the 100 million Shia in the Middle East face disaster at the hands of the Sunni majority, will convince many Shia that they are the victims of a Saudi-led campaign to crush them. “The Shia in general are getting very frightened after what happened in northern Iraq,” said an Iraqi commentator, who did not want his name published. Shia see the threat as not only military but stemming from the expanded influence over mainstream Sunni Islam of Wahhabism, the puritanical and intolerant version of Islam espoused by Saudi Arabia that condemns Shia and other Islamic sects as non-Muslim apostates and polytheists.

Dearlove says that he has no inside knowledge obtained since he retired as head of MI6 10 years ago to become Master of Pembroke College in Cambridge. But, drawing on past experience, he sees Saudi strategic thinking as being shaped by two deep-seated beliefs or attitudes.

• First, they are convinced that there “can be no legitimate or admissible challenge to the Islamic purity of their Wahhabi credentials as guardians of Islam’s holiest shrines”.
• But, perhaps more significantly given the deepening Sunni-Shia confrontation, the Saudi belief that they possess a monopoly of Islamic truth leads them to be “deeply attracted towards any militancy which can effectively challenge Shia-dom”.

Western governments traditionally play down the connection between Saudi Arabia and its Wahhabist faith, on the one hand, and jihadism, whether of the variety espoused by Osama bin Laden and al-Qa’ida or by Abu Bakr al-Baghdadi’s Isis. There is nothing conspiratorial or secret about these links: 15 out of 19 of the 9/11 hijackers were Saudis, as was Bin Laden and most of the private donors who funded the operation.

The difference between al-Qa’ida and Isis can be overstated: when Bin Laden was killed by United States forces in 2011, al-Baghdadi released a statement eulogising him, and Isis pledged to launch 100 attacks in revenge for his death.

But there has always been a second theme to Saudi policy towards al-Qa’ida type jihadis, contradicting Prince Bandar’s approach and seeing jihadis as a mortal threat to the Kingdom. Dearlove illustrates this attitude by relating how, soon after 9/11, he visited the Saudi capital Riyadh with Tony Blair.

He remembers the then head of Saudi General Intelligence “literally shouting at me across his office: ’9/11 is a mere pinprick on the West. In the medium term, it is nothing more than a series of personal tragedies. What these terrorists want is to destroy the House of Saud and remake the Middle East.’” In the event, Saudi Arabia adopted both policies, encouraging the jihadis as a useful tool of Saudi anti-Shia influence abroad but suppressing them at home as a threat to the status quo. It is this dual policy that has fallen apart over the last year.

Saudi sympathy for anti-Shia “militancy” is identified in leaked US official documents. The then US Secretary of State Hillary Clinton wrote in December 2009 in a cable released by Wikileaks that “Saudi Arabia remains a critical financial support base for al-Qa’ida, the Taliban, LeT [Lashkar-e-Taiba in Pakistan] and other terrorist groups.” She said that, in so far as Saudi Arabia did act against al-Qa’ida, it was as a domestic threat and not because of its activities abroad. This policy may now be changing with the dismissal of Prince Bandar as head of intelligence this year. But the change is very recent, still ambivalent and may be too late: it was only last week that a Saudi prince said he would no longer fund a satellite television station notorious for its anti-Shia bias based in Egypt.

The problem for the Saudis is that their attempts since Bandar lost his job to create an anti-Maliki and anti-Assad Sunni constituency which is simultaneously against al-Qa’ida and its clones have failed.

By seeking to weaken Maliki and Assad in the interest of a more moderate Sunni faction, Saudi Arabia and its allies are in practice playing into the hands of Isis which is swiftly gaining full control of the Sunni opposition in Syria and Iraq. In Mosul, as happened previously in its Syrian capital Raqqa, potential critics and opponents are disarmed, forced to swear allegiance to the new caliphate and killed if they resist.

The West may have to pay a price for its alliance with Saudi Arabia and the Gulf monarchies, which have always found Sunni jihadism more attractive than democracy. A striking example of double standards by the western powers was the Saudi-backed suppression of peaceful democratic protests by the Shia majority in Bahrain in March 2011. Some 1,500 Saudi troops were sent across the causeway to the island kingdom as the demonstrations were ended with great brutality and Shia mosques and shrines were destroyed.

An alibi used by the US and Britain is that the Sunni al-Khalifa royal family in Bahrain is pursuing dialogue and reform. But this excuse looked thin last week as Bahrain expelled a top US diplomat, the assistant secretary of state for human rights Tom Malinowksi, for meeting leaders of the main Shia opposition party al-Wifaq. Mr Malinowski tweeted that the Bahrain government’s action was “not about me but about undermining dialogue”.

Western powers and their regional allies have largely escaped criticism for their role in reigniting the war in Iraq.

Publicly and privately, they have blamed the Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki for persecuting and marginalising the Sunni minority, so provoking them into supporting the Isis-led revolt. There is much truth in this, but it is by no means the whole story. Maliki did enough to enrage the Sunni, partly because he wanted to frighten Shia voters into supporting him in the 30 April election by claiming to be the Shia community’s protector against Sunni counter-revolution.

But for all his gargantuan mistakes, Maliki’s failings are not the reason why the Iraqi state is disintegrating. What destabilised Iraq from 2011 on was the revolt of the Sunni in Syria and the takeover of that revolt by jihadis, who were often sponsored by donors in Saudi Arabia, Qatar, Kuwait and United Arab Emirates. Again and again Iraqi politicians warned that by not seeking to close down the civil war in Syria, Western leaders were making it inevitable that the conflict in Iraq would restart. “I guess they just didn’t believe us and were fixated on getting rid of [President Bashar al-] Assad,” said an Iraqi leader in Baghdad last week.

Of course, US and British politicians and diplomats would argue that they were in no position to bring an end to the Syrian conflict. But this is misleading. By insisting that peace negotiations must be about the departure of Assad from power, something that was never going to happen since Assad held most of the cities in the country and his troops were advancing, the US and Britain made sure the war would continue.

The chief beneficiary is Isis which over the last two weeks has been mopping up the last opposition to its rule in eastern Syria. The Kurds in the north and the official al-Qa’ida representative, Jabhat al-Nusra, are faltering under the impact of Isis forces high in morale and using tanks and artillery captured from the Iraqi army. It is also, without the rest of the world taking notice, taking over many of the Syrian oil wells that it did not already control.

Saudi Arabia has created a Frankenstein’s monster over which it is rapidly losing control.

The same is true of its allies such as Turkey which has been a vital back-base for Isis and Jabhat al-Nusra by keeping the 510-mile-long Turkish-Syrian border open. As Kurdish-held border crossings fall to Isis, Turkey will find it has a new neighbour of extraordinary violence, and one deeply ungrateful for past favours from the Turkish intelligence service.

As for Saudi Arabia, it may come to regret its support for the Sunni revolts in Syria and Iraq as jihadi social media begins to speak of the House of Saud as its next target. It is the unnamed head of Saudi General Intelligence quoted by Dearlove after 9/11 who is turning out to have analysed the potential threat to Saudi Arabia correctly and not Prince Bandar, which may explain why the latter was sacked earlier this year.

Nor is this the only point on which Prince Bandar was dangerously mistaken. The rise of Isis is bad news for the Shia of Iraq but it is worse news for the Sunni whose leadership has been ceded to a pathologically bloodthirsty and intolerant movement, a sort of Islamic Khmer Rouge, which has no aim but war without end.

The Sunni caliphate rules a large, impoverished and isolated area from which people are fleeing. Several million Sunni in and around Baghdad are vulnerable to attack and 255 Sunni prisoners have already been massacred. In the long term, Isis cannot win, but its mix of fanaticism and good organisation makes it difficult to dislodge.

“God help the Shia,” said Prince Bandar, but, partly thanks to him, the shattered Sunni communities of Iraq and Syria may need divine help even more than the Shia.

PATRICK COCKBURN is the author of  Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq.

mercredi, 16 juillet 2014

Snowden : «Le chef de l’EIIL, Al Baghdadi, a été formé par le Mossad»

Snowden : «Le chef de l’EIIL, Al Baghdadi, a été formé par le Mossad»

Auteur : Al Imane

L’ancien employé à l’Agence nationale de sécurité américaine, Edward Snowden, a révélé que les services de renseignement britannique et américain, ainsi que le Mossad, ont collaboré ensemble pour la création de l’ex-EIIL ou l’État islamique en Irak et au Levant, selon l’agence d’information iranienne Farsnews.

Snowden a indiqué que les services de renseignement de trois pays, à savoir les États-Unis, la Grande-Bretagne et l’entité sioniste ont collaboré ensemble afin de créer une organisation terroriste qui soit capable d’attirer tous les extrémistes du monde vers un seul endroit, selon une stratégie baptisée « le nid de frelons ».

Les documents de l’Agence nationale de sécurité américaine évoque « la mise en place récente d’un vieux plan britannique connu sous le nom de “nid de frelons” pour protéger l’entité sioniste, et ce en créant une religion comprenant des slogans islamiques qui rejettent toute autre religion ou confession ».

Selon les documents de Snowden, « la seule solution pour la protection de “l’État juif” est de créer un ennemi près de ses frontières, mais de le dresser contre les États islamiques qui s’opposent à sa présence ».

Les fuites ont révélé qu’« Abou Bakr al-Baghdadi a suivi une formation militaire intensive durant une année entière entre les mains du Mossad, sans compter des cours en théologie et pour maîtriser l’art du discours ».


- Source : Al Imane

lundi, 14 juillet 2014

Prince Bandar back in the Driver’s Seat in Riyadh

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Wayne MADSEN
Strategic-Culture.org

Prince Bandar back in the Driver’s Seat in Riyadh

Prince Bandar bin Sultan bin Abdulazia bin Saud is the godfather behind the creation of the Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL), now called the «Islamic State» or «Islamic Caliphate». Without Saudi support for the most radical of the Islamist opposition forces battling Syria’s President Bashar al-Assad, it is doubtful that ISIL would have ever incubated beyond a fringe group in Syria.

Although Bandar has been counted out of Saudi politics before, it now appears that hopes for the sacking of the former long-serving Saudi ambassador to the United States and personal friend of the Bush political family, were mere «wishful thinking» on the part of those who have crossed swords in the past with Bandar.

Bandar has returned to an influential position advising King Abdullah after being sacked as Saudi intelligence chief last April. Bandar's new title is «adviser to the King and his special envoy». Bandar never actually left the Saudi inner circle. After being dismissed as intelligence chief in April, he retained his position as secretary general of the Saudi National Security Council, a position similar to that held by Susan Rice as the White House National Security Adviser and director of the National Security Council.

Bandar's restoration to favor within the House of Saud came as King Abdullah appointed the recently-fired deputy defense minister, Prince Khaled bin Bandar bin Abdul Aziz, as the new chief of Saudi intelligence. Prince Khaled now serves in the same Syrian rebel liaison position that Prince Bandar held when the Saudis arranged for millions of dollars in cash and weapons to be transferred to radical Salafists and takfiris fighting Assad in Syria. Although it does appear that Bandar was involved in some sort of internal schism in the House of Saud, it took a mere two days for Khaled from losing his job as deputy defense minister, a job he held for only 45 days, to being named as Saudi intelligence chief. Although they share the same name, Saudi intelligence chief Khaled bin Bandar should not be confused with Saudi businessman Khaled bin Bandar bin Abdulaziz Al Saud, the son of Prince Bandar.

The important position of deputy defense minister remains unfilled. The vacancy has forced Defense Minister Salman bin Abdul Aziz, the Crown Prince, to handle the daily operations of the Defense Ministry. The Saudi governmental shuffle came about to ensure that key Saudi defense and intelligence officials were on the same page in reasserting control over ISIL as it continues to advance toward Baghdad and approaches the Iraqi-Saudi border where some border skirmishes between ISIL guerrillas and Saudi border troops have already been reported.

Unquestionably, the House of Saud has been a major bank roller of ISIL since the beginning of their roles in Syria's civil war. The Al Nusra Front (Jabhat al-Nusra), which has been mainly funded by Qatar, has pledged its support for ISIL as its forces spread across northern and western Iraq and extend their reach into northeastern Syria.

The aim of Saudi Arabia has always been to destabilize Iraq and Syria, hoping that the Nouri al-Maliki and Bashar al Assad governments, respectively, will be overthrown and replaced with radical Sunni regimes beholden to the Saudis. Bandar also wants to limit the influence of Qatar, which he believes backs the Muslim Brotherhood, a bitter enemy of the House of Saud. Bandar’s return to power signaled a freeze in a developing détente between Saudi Arabia and Qatar’s emir, Tamim bin Hamad al Thani.

Bandar was originally forced out as Saudi intelligence chief after President Barack Obama met with King Abdullah in Riyadh on March 28. Bandar's duties as the chief Saudi interlocutor with Syria's rebels was transferred to Saudi Interior Minister Prince Mohammed bin Nayef. Those duties have now been assumed by Prince Khaled.

Prince Mohammed helped steer Saudi support to the U.S.-backed Free Syrian Army (FSA), which became a second-tier and weaker player in the Syrian civil war. FSA officials, many of whom are exiled former government officials in the Assad government, are more comfortable in Istanbul hotels and restaurants than on the front lines in Syria. However, after the success of ISIL in eastern Syria and Iraq, the Saudis decided to bring back ISIL's main interlocutor, Prince Bandar, to bring the group's leadership under firmer Saudi control.

Bandar has maintained strong ties to Jihadist terrorism. Bandar, on a pre-Sochi Olympics trip to Moscow, offered Russia a lucrative weapons deal if Russia ceased its support for Assad. Bandar also told Putin that if Russia rejected Saudi Arabia's offer, Saudi-backed Islamist terrorists in the Caucasus region would be free to launch terrorist attacks on the Winter Olympics in Sochi. Putin reportedly ordered Bandar out of his office in the Kremlin. There are also reports that Saudi-financed Islamist terrorists from Chechnya and Dagestan have been active in Ukraine fighting against Russian-speaking separatists in eastern Ukraine. In some cases, Islamist terrorists have joined Israeli paramilitary units in Ukraine in support of the Kiev government's military actions against eastern Ukraine. In Syria, there have been reports of Mossad coordination with ISIL units in attacks against Syrian government forces, including in the region north of the Golan Heights.

CIA director John O. Brennan, a Saudophile and former CIA station chief in Riyadh, reportedly played a hand in the restoration of Bandar to a key position in the Saudi government. Some 1000 U.S. troops and advisers have been dispatched to Iraq not to prevent the Maliki government from falling but to assist in the transition to a post-Maliki government that will have strong pro-Saudi and Sunni representation. The U.S. military personnel are also in Iraq to protect U.S. assets in the country, including the massive U.S. embassy complex in Baghdad , as well as U.S. oil industry interests.

There were varying unsubstantiated reports at the time of Bandar's dismissal in April that he had been assassinated or wounded while visiting rebel-held positions in Syria. Other reports stated that Bandar, affectionately known by the Bush family as «Bandar Bush» because of his close ties to the American political dynasty, was poisoned in an internal Saudi feud aimed at eliminating the influence of Bandar, the chief of the influential Sudairi clan within the House of Saud. The clan also includes Prince Turki, also a former Saudi intelligence chief, and Crown Prince Salman, the defense minister and heir apparent to the throne after King Abdullah dies.

An ISIL on the move also gives Israel a powerful argument for why it must remain in charge of the West Bank and establish a tighter military control over Gaza. Bandar's goal is to eliminate the current governments of Syria and Iraq, thus depriving Iran of its only two allies in the region… With a radical Sunni caliphate in charge in Baghdad, ISIL will be poised to cross the Iranian border and start a rebellion among Iran's Arab minority in Khuzestan province, the center of Iran's oil industry. With ISIL gaining control of Iraq's southern oil fields as well as part of the fields bordering Iraqi Kurdistan, the takeover by a Saudi proxy of Iran's oil province would give Saudi Arabia effective control over much of the Middle East's oil reserves.

In February, Senator John McCain of Arizona said at the Munich Security Conference, «Thank God for the Saudis and Prince Bandar». McCain echoed similar comments he made earlier on CNN. In 2012, McCain covertly crossed into Syria from Turkey and was photographed with radical Islamists, some of whom are now fighting with ISIL in Iraq. McCain has also been steadfast in his support of Ukrainian fascists and neo-Nazis. In Mr. McCain, «Bandar Bush» has truly met a terrorism supporter comrade-in-arms.

 

 

dimanche, 13 juillet 2014

Balcanización del petróleo y oleoductos de Irak

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Balcanización del petróleo y oleoductos de Irak

por Alfredo Jalife-Rahme

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Al mismo grupo sunita Estado Islámico de Irak y el Levante” (Isil), que significa Daesh en árabe, Estados Unidos lo apoya (¡supersic!) con el fin de derrocar al presidente sirio Bashar Assad (de la secta alawita, una excrecencia del chiísmo), y lo combate (¡supersic!) simultáneamente para defender en apariencia al atribulado gobierno de su aliado chiíta árabe Nuri Maliki.

La teocracia chiíta de Irán (que no son árabes, sino persas arios) no exhibe las mismas contradiccionesflagrantes de Estados Unidos, ya que apoya tanto al presidente sirio alawita Bashar como al primer ministro chiíta iraquí Maliki.

Daesh no se pierde ni se confunde con la semiótica nebulosa que ha creado deliberadamente Estados Unidos.

Este país cumplió la mismacontradicción, que llegó a ser triple, con Osama bin Laden, cuya familia fue aliada del nepotismo dinástico de los Bush (“Osama El Bueno y Osama El Malo”, Bajo la Lupa, 6/7/02; y La enésima muerte teatral de Bin Laden y su geopolítica, mientras era combatido (sic) puntualmente en Afganistán/Pakistán (Afg/Pak) y apoyado (sic) selectivamente con los sunitas europeos de Kosovo en la Yugoslavia hoy balcanizada.

Lo menos confuso y contradictorio es la nueva cartografía del petróleo y el recorrido y la desembocadura de sus oleoductos en los tres pedazos de la antigua Mesopotamia, hoy en delicuescencia.

Isil/Daesh no padece ninguna confusión geográfica: ha derrumbado la frontera de Irak con Siria, donde gracias a sus impresionantes triunfos militares opera libremente a los dos lados de la transfrontera y ha expandido su irredentismo hasta los límites convencionales de Irak con Jordania, Arabia Saudita y Turquía, mientras reactiva la comunidad sunita de Líbano y deja desconectados al Hezbolá libanés y al régimen sirio con su matriz chiíta de Irán.

Scarlett Haddad, analista del periódico franco-libanés L’Orient-Le Jour (24/6/14), considera que Arabia Saudita no podía quedarse de brazos cruzados frente a la creciente influencia del Irán chiíta en una región globalmente sunita.

Desde el año pasado los sunitas de Daesh –que cuentan con 2 mil 500 millones de dólares y 10 mil milicianos, muchos provenientes de Chechenia– controlaban ya los pozos petroleros en la parte oriental de Siria (frontera con Irak) a lo largo del río Éufrates desde Al-Raqqa, pasando por Deir-ez-Zor hasta Abu-Kamal, además de los yacimientos de Hassaka, cerca de la frontera de Turquía.

El primer envío del petróleo de Kirkuk controlado por los sunitas kurdos no árabes ha sido a Israel, pasando por territorio sunita turco, lo cual (en)marca la balcanización del petróleo y los oleoductos de Irak entre sunitas de Daesh, kurdos sunitas no árabes y chiítas árabes.

Thierry Meyssan, director del portal galo Réseau Voltaire (23/6/14), sugiere que “el alza del barril a 115 dólares en pocos días (similar a la cotización de septiembre de 2013) ha sido abultada, ya que la captura de la refinería de Baiji (cerca de Tikrit, donde nació el sunita Saddam Hussein) ha detenido la producción destinada solamente al consumo local, por lo que no puede imputarse a la producción iraquí, sino al desorden que la invasión ha provocado en las entregas, pero que no debe prolongarse, ya que los mercados disponen de excedentes.

Thierry Meyssan pregunta: ¿Cómo pueden los terroristas (sic) vender petróleo en un mercado tan controlado por Washington?, y recuerda que en marzo de 2014 los separatistas libios de Bengasi no lograron vender el petróleo que había caído en su poder, además de que “la marina de guerra de Estados Unidos interceptó al tanquero Morning Glory y lo obligó regresar a Libia”.

El periodista francés emite un veredicto crudo: Jubhat al-Nusra (oposición islámica de Siria) y su anterior aliado Isil/Daesh logran vender petróleo en el mercado internacional porque Washington lo permite para favorecer a las trasnacionales anglosajonas.

Sucede que el petróleo robado (sic) en Siria por el Jubhat al-Nusra es vendido por ExxonMobil (la compañía de los Rockefeller que reina en Qatar), mientras que el petróleo robado (sic) por ISIS se comercializa gracias a las conexiones de Estados Unidos. ¡Otra vez las hazañas de ExxonMobil: insuperable emperador de las trasnacionales anglosajonas!

Thierry Meyssan rememora que “durante la guerra contra Libia, la OTAN autorizó a Qatar (o sea, a ExxonMobil) a vender el petróleo de los ‘territorios liberados’ por Al Qaeda”.

A su juicio, “los actuales combates –al igual que todos los que sacudieron al Medio Oriente a lo largo del siglo XX– son una guerra entre trasnacionales petroleras”, mientras que el avance de Isil/Daesh en Irak pone bajo su control “los dos principales oleoductos: uno que llega a la región siria de Banias y abastece a Siria, y otro que transporta el crudo al puerto turco de Ceyhan.

Según Thierry Meyssan, el oleoducto kurdo fue construido por el gobierno pro israelí del Kurdistán iraquí, que lo utiliza para exportar el petróleo que acaba de robarse (sic) de Kirkuk.

Sostiene que “la ofensiva de Isil esta(ba) coordinada con la del Kurdistán para dividir a Irak en tres estados más pequeños, conforme a lo previsto en el mapa del Medio Orienteampliado y ya trazado en 2001 por el Estado Mayor de Estados Unidos, mapa y desmembramiento de Irak que el ejército de Estados Unidos no logró imponer en 2003, a pesar de haber sido aprobados en 2007 por su Congreso a iniciativa del senador Joe Biden” (nota: hoy vicepresidente).

En efecto, Joe Biden y Leslie Gelb –presidente emérito del Consejo de Relaciones Exteriores (CFR, por sus siglas en inglés)– se basaron desde hace ocho años en el modelo de balcanización de Bosnia para conseguir la descentralización (sic) de Irak para cada grupo etno-religioso: los kurdos sunitas no árabes, los sunitas árabes y los chiítas árabes.

Thierry Meyssan aduce que la posible división de Irak en tres territorios tendrá obligadas repercusiones en el mercado internacional del petróleo, ya que ante el avance de ISIS, todas las trasnacionales petroleras redujeron su personal en Irak. Pero unas lo han reducido más que otras, como es el caso de BP, Royal Dutch Sell (que cuenta entre sus empleados al jequeMoaz al-Khatib, geólogo ex presidente de la Coalición Nacional Siria), Turkiye Petrolleri Anonim Ortakligi (TPAO), y de las compañías chinas (Petro China, Sinopec y CNOOC).

El director de Réseau Voltaire considera que los perdedores son los británicos, los turcos y, sobre todo, los chinos, quienes ya se habían convertido en los primeros clientes de Irak, mientras los ganadores son Estados Unidos, Israel y Arabia Saudita.

Falta ver el revire de Irán y los posicionamientos de otras potencias regionales y globales cuando el canciller ruso Sergei Lavrov pernoctaba extrañamente en Arabia Saudita mientras su homólogo John Kerry visitaba Egipto, Bagdad y Erbil (la capital kurda de Irak) y el rey saudita Abdalá era besado en la frente por el presidente egipcio Sisi en El Cairo.

Fuente: alfredojalife.com

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De Verenigde Staten versterkten ISIS

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“De Verenigde Staten versterkten ISIS met als doel Irak en Syrië aan te vallen”

“When the fox hears the Rabbit scream he comes a-runnin’, but not to help”

Opiniestuk door Syrian Girl

SYRIANGIRL BLOGSPOT – 14 juni 2014 – De terroristen van de ‘Islamitische Staat van Irak en Sham’ (ISIS) – inmiddels Islamitische Staat (IS) geheten – zouden niet zo krachtig kunnen zijn zonder de steun van een invloedrijke staat.

Het is moeilijk te geloven dat ze hun schijnbare onoverwinnelijkheid simpelweg verwezenlijkt hebben met eenvoudige moskeedonaties.

Om erachter te komen door welke staat ISIS ondersteund wordt, moet men eerst de voor de hand liggende conclusie trekken dat Iran het meest te verliezen heeft van de overname door ISIS in Irak.

Iran’s invloed in Irak strekt zich uit tot de Maliki-regering.

Dus als de vraag rijst wie het meeste baat heeft bij het terugdringen van de Iraanse invloed in het gebied, komen de gebruikelijke verdachten naar voren: Saudi-Arabië, Qatar en de Verenigde Staten (VS).

Interne rebellenstrijd

Saudi-Arabië en Qatar verdringen elkaar om de Syrische opstand te beïnvloeden. Dit zou inderdaad gekenmerkt kunnen worden door de interne strijd bij de rebellen.

Jabhat al-Nusra (JAN) en het Islamitisch Front (IF) strijden tegen ISIS, ondanks het feit dat ze beiden gelinkt zijn aan al-Qaida. Saudi-Arabië ondersteunt openlijk het IF en daarmee in het verlengde JAN. Daarom is het meer voor de hand liggend dat ISIS gesteund wordt door Qatar en Turkije. Dit sluit aan bij het feit dat ISIS het Koerdische leger bestrijdt; Turkije heeft daar altijd van geprofiteerd. Per slot van rekening heeft Turkije veel buitenlandse gevechtstrijders toegestaan om via Turkse landsgrenzen Syrië binnen te komen.

Maar deze landen worden eerder gezien als kibbelende kinderen van de VS. De VS zal dit toestaan zolang hun doelstellingen nog steeds gehaald worden. Het gros van de media stuurt erop aan dat ISIS op het punt staat om Bagdad over te nemen. Dit veroorzaakt vervolgens paniek bij de Iraakse regering die ondersteuning van de VS zal vragen. De kracht en snelheid waarmee ISIS opereert lijkt wellicht in eerste instantie op een vernedering van de VS, maar het past bij de lange termijn doelstelling en visie van de VS voor Irak.

Velen hebben de verkeerde aanname dat de VS een goed functionerende staat van Irak wilde maken. Ze zien de neergang van Irak als een mislukking van het Amerikaanse beleid.

Echter, degenen die de handelingen van de VS in de laatste twee decennia nader onderzocht hebben, weten dat het nooit het doel is geweest om een goed functionerende staat van Irak te maken. Per slot van rekening zorgde de ‘El Salvador option’ voor oplaaiend sektarisch geweld in Irak.

Balkanisatie van Irak

Dat de VS de sektarische sjiitische militieleden en Koerdische strijders of Peshmerga separatisten de macht gaven, zorgde voor een pseudo-balkanisatie van Irak. De balkanisatie van Irak werd openlijk tot doel verklaard door het, door zionisten gesteunde, Brookings Institution. Met de inname van de al Anbar provincie – de grootste Iraakse provincie – door ISIS, is het laatste deel van dit plan tot uitvoering gebracht.

Het is de moeite waard op te merken dat ISIS (voorheen ISI) in 2006 opgericht werd als een sektarisch alternatief op het voornamelijk nationalistische verzet tegen de bezetting, om verdeeldheid te zaaien en ieder Iraaks front tegen de bezetting te overheersen.

Het is zeer onwaarschijnlijk dat de Amerikaanse regering troepen zal sturen. Het is aannemelijker dat ze hun drones – onbemande vliegtuigen – zullen inzetten in Iraaks luchtgebied. Deze overtreding van de Iraakse soevereiniteit zal dienen om Syrisch grondgebied te kunnen betreden voor de zogenaamde zoektocht naar ISIS.

Centrale gezag in Irak en Syrië ondermijnen

De VS zullen al-Qaida als voorwendsel gebruiken om weer in te kunnen grijpen; niet alleen in Irak maar ook in Syrië. De VS zullen geen kans onbenut laten om de Syrische regering en het leger weer te ondermijnen. Ze zullen zich bemoeien met het Iraanse luchttransport van goederen naar Syrië.

Net zoals in Pakistan is hun doel niet om de rebellen uit te schakelen, maar om die illusie in stand te houden. Tegelijkertijd staan ze hen toe om in kracht te groeien.

Men moet niet vergeten dat ISIS lang niet zo machtig zou kunnen zijn als de VS niet de kracht van de staat ondermijnd hadden en tevens de jihad-groeperingen in Syrië en Libië niet hadden ondersteund.

Al-Qaida zou niet bestaan hebben zonder dat de VS hier achter hadden gezeten in Afghanistan.

Zoals de maffia beschermingsgeld heft, zorgen de VS voor versterking van al-Qaida om zodoende de macht in landen over te kunnen nemen.

Bron: SyrianGirl Blogspot.

samedi, 28 juin 2014

Les Américains de retour en Irak...Pour rebattre les cartes...

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LES AMERICAINS DE RETOUR EN IRAK

Pour rebattre les cartes..

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Obama a finalement décidé d'envoyer des conseillers militaires à Bagdad. C’est une intervention à minima ajoutée à l’utilisation de drones armés. Pouvait-il faire autrement ? L'annonce a été faite quelques heures seulement après que le secrétaire d'État John Kerry ait déclaré que Washington envisageait de négocier avec l’Iran pour mettre au point les conditions d’une éventuelle coopération militaire avec ce pays. L'annonce d'Obama est d’autant plus surprenante que le 13 juin dernier, le président américain avait déclaré que les Etats-Unis n’avaient pas l’intention d’envoyer des troupes en Irak. « Nous n'enverrons pas de troupes américaines pour combattre en Irak, mais nous préparons des options pour soutenir les forces irakiennes », avait-il dit. Dans une lettre au Congrès américain, Obama écrit que 275 soldats sont déjà partis dimanche. Leur mission est limitée à la protection du personnel des États-Unis à l'ambassade de Bagdad ( 5 500 personnes travaillant pour cette ambassade ). En outre, l'US Navy a envoyé un porte-hélicoptères dans le Golfe Persique.
 
Les extrémistes musulmans de l'Etat islamique en Irak et au Levant ( EIIL ) ont conquis la ville de Tal Afar, ville de 200.000 habitants dans le nord du pays. L’EIIL contrôle désormais plusieurs villes irakiennes et à chaque fois, ils imposent immédiatement une forme médiévale de charia. La progression de l'EILL n’aurait pas cessé ces derniers jours tandis que 1 700 soldats irakiens de confession chiite auraient été exécutés dans un massacre à Tikrit ( information confirmée par le Département d'Etat ). Des images du massacre ont été diffusées par la télévision iranienne.
 
L'EIIL est dirigé par le prince Abdul Rahman et commandé par Abu Bakr el-Bagdadi, ancien membre d'Al Qaida, libéré en 2010 de manière assez curieuse. Il y a donc derrière ce groupe, l'Arabie Saoudite et le groupe djihadiste disposerait d'un encadrement étranger. Ce qui semble être en cours, c'est bien la partition tant attendue dans les plans du Pentagone et des stratèges américains de l'Irak. Un Irak divisé en trois Etats : un état chiite, un état kurde ( ce qui est un affront pour la Turquie dont une centaine de citoyens ont été pris en otage à Mossoul ) et un état sunnite.
 
Enfin, et cela se rapprochera de nos frontières, l’État islamique en Iraq et au Levant chercherait à créer une filiale au Maghreb. Le patronyme même aurait déjà été choisi ( « Dameth » ) et ce, dans l'objectif clair de prendre pour cible l'Algérie. Ce patronyme signifie « État islamique au Maghreb islamique » ou « État islamique en Égypte et au Soudan », le Maghreb arabe coiffant les cinq États situés au nord et au nord-ouest de l'Afrique soit l'Algérie, la Libye, la Mauritanie, le Maroc et le Sahara occidental. Le général Ahmad Bousatila, chef de la garde nationale algérienne, a donné l'ordre de mobilisation des unités de la garde nationale, des unités d'investigation et d'intervention ainsi que l'aviation algérienne pour contrôler les frontières face au danger qui s'approche du nord de l'Afrique en provenance du Moyen-Orient et ce d'autant plus que l'armée tunisienne a de plus en plus de mal à contrôler ses frontières avec l'Algérie et la Libye. L'Algérie est de plus particulièrement exposée aux infiltrations des djihadistes en provenance du nord du Mali et du sud-est de la Libye.
 
Quant à l'autre groupe concurrent, Al-Qaïda au Maghreb islamique, il a menacé de mener de nouvelles attaques en Tunisie et a même dernièrement revendiqué être l'auteur de l'attentat contre le domicile du ministre tunisien de l'Intérieur, le 28 mai dernier. Dans un communiqué, AQMI a aussi reconnu que des combattants armés pourchassés depuis un an et demi, au mont Chaambi font parties de ses troupes.

La déstabilisation se rapproche de nos frontières.

vendredi, 27 juin 2014

US vs Syria: How to Lose a War in 3 Years

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Author: Tony Cartalucci

US vs Syria: How to Lose a War in 3 Years

Ex: http://journal-neo.org

The government in Damascus and the Syrian Arab Army have begun restoring order across the country after over 3 years of devastating fighting. The so-called “capital of the revolution,” the city of Homs, has been reclaimed by government forces and people have begun returning home. A recent election carried out across Syria and throughout expatriated Syrian communities around the world portrayed widespread support for the government in Damascus and more over, the idea of Syria as a nation itself.

It is becoming increasingly difficult for the West to prolong recognizing the obvious, that the Syrian government has prevailed. In a recent TIME Magazine article titled, “In Syria, Victory is Written in Ruin,” it admits:

Defying expectations that he would be the next domino to fall in the Arab Spring’s chute of regional dictators, Assad stands stronger than ever. His military, augmented by fighters from the Lebanon-based Shi’ite militia Hizballah, funded in part by Iran and armed with Russian weapons and ammunition, has consolidated control over a strategic corridor connecting the capital, Damascus, to the coast. 

TIME then attempts to make excuses as to why Syrians support the government. The article claims:

…the war’s toll has more and more Syrians turning, reluctantly, toward the regime. Not because they support Assad but because they are desperate to return to some semblance of normal life. 

But perhaps the most deliberate distortion TIME makes is its revision of how the war unfolded in the first place. It claims:

For the rebel brigades and exiled opposition leaders, the involvement of extremist groups was an unfortunate stain on an otherwise pure uprising against tyranny. To the regime, it was proof of a foreign-funded scheme to destabilize Syria. 

The narrative, repeated across the Western media, illustrates how the US finishes up a lost war. First, it makes excuses as to why deviations from the West’s original narrative have manifested themselves in demonstrable and undeniable events, like Syria’s elections and the overwhelming support Damascus visibly commands across the country. Next it revises history to account for how and why events unfolded differently than expected. In Syria, the protracted warfare that eventually revealed Syria’s “freedom fighters” to be armies of foreign-funded terrorists flowing over the nation’s borders is explained as extremists “hijacking” or “derailing” the “revolution.”

To see just how far from reality TIME Magazine and others still perpetuating this myth have departed, readers should recall Pulitzer Prize-winning journalist Seymour Hersh’s 2007 New Yorker article, “The Redirection” which prophetically stated (emphasis added):

To undermine Iran, which is predominantly Shiite, the Bush Administration has decided, in effect, to reconfigure its priorities in the Middle East. In Lebanon, the Administration has coöperated with Saudi Arabia’s government, which is Sunni, in clandestine operations that are intended to weaken Hezbollah, the Shiite organization that is backed by Iran. The U.S. has also taken part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria. A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.

Throughout the rest of Hersh’s nine-page report, which came out 4 years before the so-called “Arab Spring” unfolded, is outlined in specific detail how the West and its regional allies including Israel and Saudi Arabia, were already funneling in cash and arraying armed sectarian extremists against Hezbollah inside of Lebanon and against the government of Syria. Hersh’s report even included a retired CIA agent who portended the sectarian nature of the impending, regional conflict.

syr153930707edited-300x201.jpgThe third and final step the US must take upon losing a war is to leave chaos where victory was denied, and attach responsibility for the conflict to a disposable elected politician – in this case US President Barack Obama. While the war was clearly conceived during the administration of George Bush as early as 2007, it was executed under the watch of Obama. By attaching responsibility for the conflict to Obama, when his term is up and he passes into the hindsight of history, corporate-financier funded policy makers will have before them a clean slate upon which to begin carrying out the next leg of their continuous agenda.

Before the Syrian conflict is fully forgotten, however, the US will ensure that the process of reconciliation and reconstruction is made as problematic as possible for Damascus. Despite for all intents and purposes, losing the war, the West has continued supplying weapons and aid to militants within and along Syria’s borders. TIME Magazine appears to almost revel in the fact that despite the “rebels” losing, it will be years before Syria is able to recover to pre-war conditions. TIME states:

For all his swaggering claims of victory, Assad presides over a country in a profound state of destruction and distress. The U.N. Relief and Works Agency estimates that even if the war were to end immediately, it would take 30 years for the economy to recover to pre-2010 levels — and then only if GDP grew at a steady 5% a year. According to government statistics, prices of basic consumer goods like food and fuel have tripled. Half the workforce is jobless, and more than half the population is living in poverty.

With the US and its regional partners still pumping in weapons and fighters, it plans to ensure recovery is as slow and as painful as possible. In fact, US policy makers within the corporate-funded Brookings Institution in a 2012 Middle East Memo titled “Assessing Options for Regime Change,” stated (emphasis added):

The United States might still arm the opposition even knowing they will probably never have sufficient power, on their own, to dislodge the Asad network. Washington might choose to do so simply in the belief that at least providing an oppressed people with some ability to resist their oppressors is better than doing nothing at all, even if the support provided has little chance of turning defeat into victory. Alternatively, the United States might calculate that it is still worthwhile to pin down the Asad regime and bleed it, keeping a regional adversary weak, while avoiding the costs of direct intervention.

While in 2012 it was still too early to be sure, it is now without a shadow of a doubt this policy that the US and its regional partners have pursued in the last, losing stages of this conflict. TIME Magazine’s sobering assessment of the destruction this policy wrought is the price Syrians have paid for Washington’s desire to keep a “regional adversary weak.”

The insidious, premeditated nature of Syria’s destabilization and destruction is a hard lesson learned for the Syrian people, and a lesson other nations around the world must learn from in order to prevent a similar scenario from unfolding within their borders. While the US may have lost its proxy war with Syria, the Syrian people’s victory has come at a great cost. Ensuring those who paid in full for this victory did not die in vain, Syrians living today must work together to dash Washington’s hopes that the West’s parting shots will leave it “weak” for years to come.

Tony Cartalucci, Bangkok-based geopolitical researcher and writer, especially for the online magazine New Eastern Outlook”.

Putin steunt Maliki


Putin steunt Maliki: Rusland en VS nu ook in Irak tegenover elkaar

Chaos in het Midden Oosten steeds groter

Irak beschuldigt Saudi Arabië van genocide

Irak dreigt in drie delen uiteen te vallen

Om te voorkomen dat Irak opnieuw in vlammen opgaat is de Russische premier Putin achter premier Al-Maliki (inzet) gaan staan, die gisteren gedumpt werd door Amerika (2).

Nadat Amerika gisteren Maliki –niet langer een gehoorzame pion van Washington- openlijk liet vallen, bevestigde Putin per telefoon snel zijn ‘volledige steun voor de Iraakse acties om het grondgebied snel te bevrijden van terroristen.’ Het Kremlin voegde daaraan toe dat beide leiders bilaterale samenwerking hebben besproken.

De complexe, chaotische situatie in het Midden Oosten is nauwelijks meer te ontrafelen. De belangrijkste situaties en ontwikkelingen in en rond Irak op een rijtje:

* ISIS in Irak bestaat feitelijk uit twee legers, waarvan één wordt gedomineerd door Al-Qaeda. Bij dat leger hebben diverse Soefistische groeperingen, Saddam Husseins oude Baath Partij en door Amerika getrainde stammen van de ‘Soenitische Ontwaking Raad’ zich aangesloten. Inmiddels lijkt ook de hoofdstad Baghdad aan hen te prooi te kunnen gaan vallen. (4)

* Amerika stuurt geen troepen, maar slechts 300 ‘militaire adviseurs’ naar Irak (4), en steunt nu stilzwijgend de Iraanse militaire interventie. Tegelijkertijd wordt Teheran onder druk gezet om concessies te doen aangaande het omstreden nucleaire programma van het land.

* Saudi Arabië wil op goede voet blijven staan met de VS, maar staat vijandig tegenover het Iraakse regime en steunt ISIS met onder andere wapenleveranties. In tegenstelling tot Amerika zijn de Saudi’s mordicus tegen Iraanse inmenging in Irak. Vanwege de Saudische steun voor ISIS beschuldigde de Iraakse regering de Saudiërs van ‘genocide’ en ‘de vernietiging van de Iraakse staatsinstellingen en historische en religieuze locaties.’

* Iran stelt zich wat Irak betreft plotseling op als Amerika’s beste vriend in de regio, en lijkt bereid meer troepen te sturen om te voorkomen dat het land compleet ten prooi valt aan ISIS.

* In Syrië kan president Bashar Assad kan rustig achterover leunen en glimlachend constateren dat het de regering Obama ondanks diens steun voor de Al-Nusra/Al-Qaeda rebellen niet is gelukt om hem te verdrijven. Zijn eigen leger blijft het echter heel moeilijk hebben met deze rebellen, die nog lang niet verslagen zijn.

* Qatar steunt de Syrische rebellen, maar stelt zich vooralsnog terughoudend op over Irak. Vermoed wordt dat het land direct of indirect ISIS steunt.

* Jordanië, een goede vriend van de VS, heeft op een geheime basis ISIS-terroristen laten trainen door Amerikaanse instructeurs. Amerikaanse troepen en vliegtuigen moeten Jordanië beschermen tegen eventuele vergeldingsaanvallen uit Syrië.

* In Turkije, NAVO-lid, is met Turkse militaire steun op een basis bij de luchtmachtbasis Incirlik hetzelfde gebeurd. De Turken steunen openlijk de Syrische rebellen en heimelijk ISIS, maar zouden die steun kunnen loslaten vanwege de politieke en ideologische toenadering tussen de regering Erdogan en de Iraanse president Hassan Rouhani.

* De Koerden lijken daardoor meer speelruimte te hebben in Noord Irak. Volgens Veysel Ayhan, directeur van het International Middel East Peace Research Center (IMPR) in Ankara, begint premier Erdogan te accepteren dat Irak in drie delen uiteen zou kunnen vallen: een Shi’itische deel in het Oosten en Zuiden, een Soennitische deel in het Westen, en een Koerdisch deel in het Noorden. (5)

* Rusland, dat in Syrië van meet af aan bondgenoot Assad is blijven steunen, heeft nu ook in Irak partij gekozen tegen Amerika. Tegelijkertijd profiteert het Kremlin van de stijgende olieprijzen. Het Russische Lukoil investeert fors in het enorme Iraakse West-Qurna-2 olieveld, dat in handen van ISIS zou kunnen vallen. Dat wil Putin ten koste van alles voorkomen.

* Israël, waar de massale zoektocht naar de drie door Hamas ontvoerde tieners nog altijd voortduurt, kijkt met gemengde gevoelens naar de almaar groter wordende chaos over de grenzen. Aan de ene kant leidt het de moslimlanden af van hun haat tegen de Joodse staat; aan de andere kant dreigen veel landen in handen te vallen van extremistische islamisten, die zich later zouden kunnen verenigen in een nieuwe oorlog tegen Israël.

En dan hebben we ook nog Libanon (Hezbollah, het Iraanse proxy-leger dat Assad steunt), Egypte, waar het leger probeert de Moslim Broederschap te verpletteren, Libië, dat nog altijd wordt verscheurd door islamistische krachten zoals Al-Qaeda, Afghanistan, waar de Taliban nog steeds niet is verslagen en 1,5 miljoen mensen op de vlucht zijn geslagen, en natuurlijk Pakistan, dat eveneens moet blijven vechten tegen terroristen. Ook in Soedan, Somalië en Nigeria zaaien moslimgroepen dood en verderf.

Niet voor niets waarschuwde de VN eerder deze week voor een nieuwe regionale oorlog. Gezien de talloze brandhaarden lijkt slechts een klein vonkje al voldoende.

Xander

(1) Zero Hedge
(2) Zero Hedge
(3) Zero Hedge
(4) DEBKA
(5) Shoebat

U.S. Embassy in Ankara Headquarter for ISIS War on Iraq

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U.S. Embassy in Ankara Headquarter for ISIS War on Iraq – Hariri Insider

Christof Lehmann (nsnbc)
 
 
The green light for the use of ISIS brigades to carve up Iraq, widen the Syria conflict into a greater Middle East war and to throw Iran off-balance was given behind closed doors at the Atlantic Council meeting in Turkey, in November 2013, told a source close to Saudi – Lebanese billionaire Saad Hariri, adding that the U.S. Embassy in Ankara is the operation’s headquarter.

A “trusted source” close to the Saudi – Lebanese multi-billionaire and former Lebanese P.M. Saad Hariri told on condition of anonymity, that the final green light for the war on Iraq with ISIS or ISIL brigades was given behind closed doors, at the sidelines of the Atlantic Council’s Energy Summit in Istanbul, Turkey, on November 22 – 23, 2013.

The Atlantic Council is one of the most influential U.S. think tanks with regard to U.S. and NATO foreign policy and geopolitics. Atlantic Council President Frederick Kempe stressed the importance of the Energy Summit and the situation in the Middle East before the summit in November, saying:

“We view the current period as a turning point, just like 1918 and 1945. Turkey is in every way a central country, as a creator of regional stability. However much the USA and Turkey can work in unison, that is how effective they will be.”

The summit was, among others, attended by Turkey’s President Abdullah Gül, U.S. Energy Secretary Ernst Monitz, Atlantic Council President Frederick Kempe, former U.S. Secretary of State Madeleine Albright, former U.S. National Security Adviser Brent Scowcroft.

It is noteworthy that Scowcroft has long-standing ties to Henry Kissinger and to the Minister of Natural Resources of the Kurdish Administrated Region of Northern Iraq.

“Had Baghdad been more cooperative about the Syrian oil fields at Deir-Ez-Zor in early 2013 and about autonomy for the North [Iraq's northern, predominantly Kurdish region] they would possibly not have turned against al-Maliki; Or he would have been given more time”, said the Hariri insider during the almost two-hour-long conversation.

In April 2013 the EU lifted its ban on the import of Syrian oil from "rebel held territory to finance the opposition".

In April 2013 the EU lifted its ban on the import of Syrian oil from “rebel held territory to finance the opposition”.

In March 2013, U.S. Secretary of State John Kerry demanded that Iraq “stops the arms flow to Syria”, while U.S. weapons were flowing to ISIS via Saudi Arabia into Iraq and Jordan.

On Monday, April 22, 2013, 27 of the 28 E.U. foreign ministers agreed to lift the ban on the import of Syrian oil from opposition-held territories to allow the “opposition” to finance part of its campaign.

“ISIS that was supposed to control [the region around] Deir Ez-Zor. [Turkish Energy Minister Taner] Yildiz and [Kurdish] Energy Minister Ashti] Hawrami were to make sure the oil could flow via the Kirkuk – Ceyhan [pipeline];… Ankara put al-Maliki under a lot of pressure about the Kurdish autonomy and oil, too much pressure, too early, if you’d ask me”, the source said. He added that the pressure backfired.

Plotting: Red, by Maj.(r) Agha H.Amin. Blue, by Christof Lehmann

Plotting: Red, by Maj.(r) Agha H.Amin. Blue, by Christof Lehmann

Previous reports confirmed that Baghdad started intercepting weapons and insurgents along the Saudi – Iraqi border, cutting off important supply lines for ISIS brigades around Deir Ez-Zor, and that Al-Maliki began complaining about a Saudi – Qatari-backed attempt to subvert the Iraqi State since late 2012. Noting my remark he replied:

“That is right, but the heavy increase in attacks came in May – June 2013, after al-Maliki ordered the military to al-Anbar “.

A previous article in nsnbc explains how Baghdad’s blockade caused problems in Jordan, because many of the transports of weapons, fighters and munitions had to be rerouted via Jordan.

The Hariri insider added that the oil fields should have been under ISIS control by August 2013, but that the plan failed for two reasons. The UK withdrew its support for the bombing of Syria. That in turn enabled the Syrian army to dislodge both ISIS and Jabhat al-Nusrah from Deir Ez-Zor in August.

“The situation was a disaster because in June Hariri, Yidiz, Hawrami, Scowcroft, and everybody was ready to talk about how to share the oil between the U.S., Turkey and E.U.. The Summit in November should have dealt with a fait accompli”, the Hariri source stressed, adding that Washington put a gun to al-Maliki’s head when he was invited to the White House.

Both the President of the Kurdish region of Iraq, Masoud Barzani and Iraqi PM Nouri al-Maliki were invited to Washington in early November 2013.

“Certain circles in Washington put a hell of a lot of pressure on Obama to put a gun to al-Maliki’s head”, said the Hariri source, adding that “time was running out and Obama was hesitant”. Asked what he meant with “time was running out” and if he could specify who it was that pushed Obama, he said:

“Barzani was losing his grip in the North (Kurdish Iraq); the election [in September] was a setback. All plans for distributing Iraqi oil via Turkey and for sidelining Baghdad were set between Kirkuk and Ankara in early November…

“Who exactly pressured Obama? I don’t know who delivered the message to Obama. I suspect Kerry had a word. It’s more important from where the message came, Kissinger, Scowcroft, Nuland and the Keagan clan, Stavridis, Petreaus, Riccardione, and the neo-con crowd at the [Atlantic] Council. … As far as I know ´someone` told Obama that he’d better pressure al-Maliki to go along with Kurdish autonomy by November or else. Who exactly ´advised` Obama is not as important as the fact that those people let him know that they would go ahead, with, or without him”.

Asked whether he knew details, how the final green light for the ISIS campaign was given, he said:

” Behind closed doors, in the presence of both Scowcroft, Hariri, and a couple of other people”. To my question “if he could be more specific” he replied “I could; I want to stay alive you know; Riccardione was tasked with the operation that day”.

Noting that a prominent member of Saudi Arabia’s royal family, Prince Abdul Rachman al-Faisalhas been named as the one being “in command” of the ISIS brigades, and if he could either confirm or deny, he nodded, adding that “the Prince” is responsible for financing the operation and for part of the command structure, but that the operations headquarter is the U.S. Embassy in Ankara Turkey. “As far as I know, nothing moves without Ambassador Riccardione”, he added.

Ch/L – nsnbc 22.06.2014

ISIS Unveiled: The Identity of The Insurgency in Syria and Iraq

jeudi, 26 juin 2014

De la prétendue intangibilité des frontières

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IRAK, AFGHANISTAN : MOURIR POUR RIEN
De la prétendue intangibilité des frontières

Laurent Mercoire
Ex: http://metamag.fr
 
« Etre mort pour rien » en Irak ? Cette interrogation a été soulevée par des commentateurs américains après la prise de contrôle du Nord de ce pays par le groupe « Etat islamique en Irak et au Levant » ( EIIL ). L’objectif initial des USA, lors de la troisième guerre du Golfe persique ( 2003 ), était de trouver des armes de destruction massive. En leur absence, l’établissement en Mésopotamie d’un régime démocratique était devenu un nouvel enjeu, lequel semble à son tour pour le moins compromis… Il faut cependant raison garder : on n’a encore jamais vu le succès d’une rébellion minoritaire contre un gouvernement, dès lors que celui-ci était soutenu par une identité de conviction ( ici le Chiisme ) et par l’essentiel de la communauté internationale. 

Le succès apparent de l’EILL d’Abu Bakr « al-Baghdadi », connu aussi sous l’acronyme ISIS (Islamic State in Iraq and Syria – or al-Sham ) attend donc d’être confirmé dans la durée, car pour l’instant la capitale, symbole du pouvoir, reste aux mains de l’Etat irakien. La problématique est ailleurs, puisque bien des analystes commencent à envisager sérieusement une partition de l’Irak, avis qui est loin d’être partagé par les Occidentaux. Or le principe de l’intangibilité des frontières relève du Droit international ( utipossidetis ). L’Occident, que ce soit sous les auspices de l’OTAN ou de l’Organisation des Nations Unies  ( ONU ), doit-il accepter le sacrifice de ses soldats au nom de ce principe, dès lors qu’il s’avère inopérant ?

Le constat de la défaillance des Etats

Les USA souhaitaient faire disparaître des « Etats-voyous » ( Rogue States ) ; aujourd’hui quelques-uns d’entre eux sont devenus des Etats en faillite ( Failed States ), tout aussi dangereux. D’autres Etats, plus favorablement connus, sont dans une situation fragile, à l’exemple du Liban ou du Soudan du Sud. Apparemment, là où a été engagée une armée américaine, sans que la doctrine Powell soit respectée, les dégâts sont immenses. En 1975, le régime de Saigon tombait face à l’offensive des communistes vietnamiens ; demain peut-être tomberont les régimes en place à Kaboul et à Bagdad, face aux Talibans et aux Djihadistes…

Le contraste est saisissant sur les rives du Tigre et de l’Euphrate, entre ce qu’était l’Etat irakien, lors de la toute première guerre du Golfe, et ce qu’il est devenu aujourd’hui. L’Iran s’est défendu contre l’armée irakienne pendant une décennie ( 1980-1988 ) ; le gouvernement de Saddam Hussein maintenait une cohérence nationale, en ayant recours à une forte contrainte, à l’emploi d’armes chimiques ( notamment contre les Kurdes à Halabja ), et grâce au large soutien des pays arabes et occidentaux. Trente ans après, la République islamique d’Iran envisage de venir au secours de l’Etat irakien, aujourd’hui plus chiite que national, face à une menace au sein de laquelle il est difficile d’identifier les parts respectives du fondamentalisme wahhabite et du nationalisme sunnite. L’Iran des ayatollahs est toujours là, l’Irak du parti Baas a disparu. Le cadre régional reste cependant identique, avec l’affrontement entre Chiites et Sunnites, le désir du peuple kurde de disposer d’un territoire, et le regard attentif de la Turquie sur les confins du plateau anatolien... Israël, au cœur de l’orage, ne sait pas encore quelle attitude adopter bien que le maintien d’un axe avec l’Arabie Saoudite et les USA, dirigé contre l’Iran, soit encore sur la table.

Si la guerre contre le terrorisme n’a pas été un succès, peut-être est-ce dû pour partie à l’affaiblissement des Etats qualifiés de « nationaux », déstabilisés par des forces religieuses, ou ethniques, sources d’une plus forte, et plus proche, identité. Il est temps de changer d’optique ; l’intangibilité des frontières devrait être remise en question, dès lors qu’elle apporte plus d’inconvénients que d’avantages. Certes, toucher aux Etats pose quelques difficultés ; il suffit de constater les réactions, soit en France, face au projet des nouvelles régions, soit dans les nations d’Europe confrontées aux désirs d’autonomie, voire d’indépendance, de la Catalogne, de l’Ecosse ou du Donbass.

Une intangibilité de principe peu conforme aux réalités

Le principe de l’utipossidetis définit, pour une nouvelle entité souveraine, des frontières superposables aux limites ( souvent administratives ) du territoire dont elle provient. Il a été appliqué lors des décolonisations : l’Afrique, avec la déclaration du Caire du 22 juillet 1964, l’a privilégié en sacrifiant ainsi l’autodétermination des peuples. C’est sur ce principe, plus connu sous le terme d’intangibilité des frontières, que les sécessions biafraise ( 1967-1970 ) et katangaise ( 1960-1963 ) ont été respectivement réduites par le Nigeria et le Congo. A l’inverse, c’est aussi sur celui-ci, que la république autonome de Crimée a conservé ses limites en se séparant de l’Ukraine pour rejoindre la Fédération de Russie.

De manière sanglante ou non, légale ou illégale, de facto ou de jure, bien des frontières ont été modifiées, au-delà des simples rectifications compatibles avec le principe d’intangibilité. Il suffit de citer la Jordanie ( qui a perdu l’Ouest du Jourdain ), l’Erythrée qui s’est séparée de l’Ethiopie, et le Soudan où un nouvel Etat a été créé, trois situations créées ou résolues par la guerre. L’Europe n’y a pas échappé ; si elle restée longtemps en paix, c’est pour éviter un affrontement Est-Ouest au lendemain de la Seconde guerre mondiale. Les accords de Yalta, par le «  nettoyage ethnique » qui en a résulté en Pologne et en Bohême, ont sans doute prévenu certains antagonismes. Depuis la chute du Rideau de fer, seule la Tchécoslovaquie s’est scindée librement, respectant les principes de l’utipossidetis. Là où les frontières n’ont pas été modifiées et où les peuples sont restés, les conflits ont perduré et les organisations étatiques ont été en échec, comme en Bosnie, pays où les populations croates et serbes n’ont pas été autorisés à se fédérer avec la Croatie ou la Serbie. Quant à la Crimée, elle vient d’être perdue par l’Ukraine en se rattachant à la Fédération de Russie, même si la communauté internationale ne l’a pas encore reconnu. Si ce détachement n’a pas été sanglant, il n’en est pas de même dans le Donbass…  Il n’est pas certain que le prix Nobel de la Paix reçu par l’Union européenne en 2012 soit tout à fait mérité.

Ce principe d’intangibilité est tellement présent dans les esprits qu’une tribune récente et brillante ( 13 juin 2014 ) d’un homme politique français, auteur en février 2003 d’un célèbre discours aux Nations-Unies, ne mentionne à aucun moment des solutions impliquant une modification des frontières. L’actuel ministre français des Affaires étrangères, par principe hostile à tout renforcement de l’Iran, vient de déclarer ( 18 juin ) que l’unité de l’Irak devrait être préservée à tout prix… Il ne manque plus que l’avis d’un ex-nouveau philosophe, dont les interventions se sont jusqu’ici traduites par la poussée d’une herbe toujours plus « verte », faisant presque regretter le cheval d’Attila…

Chacun chez soi ?

En fait, demander à un Etat de disparaître ou de se transformer en abandonnant une partie de lui-même revient à lui faire accepter une sécession. La volonté de séparation doit-elle être encouragée ou combattue ? La Russie ( face aux Tchétchènes ) et la Chine ( face aux Tibétains ou aux Ouïghours ) ont clairement choisi leur voie. On peut comprendre aussi que les USA y soient réticents, à la fois pour des raisons relevant des relations internationales, mais aussi parce que leur nation s’est construite sur une guerre civile ( 1861-1865 ), la plus coûteuse de leur histoire en vies humaines, visant au maintien de l’Union face à la sécession des Etats du Sud.

La reconnaissance, sous la forme d’un Etat souverain, d’un territoire lié à un peuple a au moins deux avantages, l’un à usage interne, et l’autre à usage externe. D’abord l’acceptation d’une appartenance, laquelle se décline de l’élémentaire vers le complexe ( et non pas l’inverse ) : l’individu est d’abord proche de son village, de son terroir avant d’accepter d’être rattaché à une province, un Etat, une Union ou une Alliance. Ensuite, une territorialisation réduit les sources de conflit avec l’extérieur, ce qui est bien pour le voisinage, et, en cas de problème, on sait à quel responsable reconnu s’adresser… Au contraire, la non-prise en compte de l’identité individuelle ou collective induit le terrorisme ( ce qui l’explique, mais ne l’excuse pas ), dont les cibles vont être ceux qui sont responsables de la situation, soit en étant parties prenantes, soit en étant juges. Supprimer un motif de revendication, et donc de ressentiment, est une méthode de prévention ou de traitement bien plus efficace que l’affrontement, ou pire le pourrissement. La sortie d’une crise passerait donc par l’éclatement d’un Etat incapable d’assurer sa souveraineté sur son territoire.

Pour en revenir à l’Irak, la dissociation entre trois entités sunnite, chiite et kurde satisferait certains acteurs, mais en inquièterait beaucoup d’autres. Elle a été défendue par le président de l’Irak, le Kurde Jalal Talabani,( aujourd’hui en retrait pour des raisons de santé ),  mais n’était pas plus recevable autrefois qu’elle ne le serait aujourd’hui par les autres partenaires. Par sa constitution, l’Irak est déjà un Etat unique, souverain, indépendant et fédéral ( Art. 1 ) ; les Kurdes y trouvent de nombreux avantages, ce qui explique leur soutien au gouvernement actuel. Ni la Turquie, ni l’Iran ne sont très favorables à la notion de «  Kurdistan » ( la majorité du peuple kurde vit dans ces deux pays ) ; quant aux pays arabes du Golfe, ils ne veulent à aucun prix d’une extension du chiisme iranien sur la Mésopotamie. En résumé, le désordre, créé par l’intervention américaine n’est pas prêt de disparaître. Pour être juste, la politique revancharde envers les Sunnites du premier ministre chiite Nouri al-Maliki n’a pas amélioré les choses, au point que ce dernier est peut-être devenu un obstacle à tout règlement négocié. Oui, le monde devient bien dangereux, et on comprend qu’il est plus aisé de maintenir que de rompre l’intangibilité des frontières… Quelle que soit l’option choisie, le risque de mourir, pour rien ou non, sera présent ; autant que ce soit contre des barbares...

Les actions menées depuis des décennies par l’Occident, la Turquie et les pays arabes du Golfe persique ont concouru, en Irak et en Syrie, à la disparition des régimes issus des anciens partis Baas. Ces partis avaient à l’origine une triple caractéristique : socialiste, laïque, et nationaliste. Aujourd’hui les groupes islamistes fondamentalistes qui veulent les remplacer échappent à ceux qui les ont soutenus, lesquels s’inquiètent enfin d’un potentiel « Djihadistan ». Bien que la faiblesse de l’Etat irakien, mal gouverné par Nouri al-Maliki, soit apparente depuis de longs mois, l’Occident semble aujourd’hui découvrir ce qu’il a contribué à enfanter. Les forces qui séparent s’affrontent à celles qui réunissent ; combien de temps faut-il pour construire, détruire et reconstruire ? Emotion et morale court-circuitent la raison et le bon sens ; une guerre doit d’abord être pensée avec la tête. Idéalisme et raison ne sont pourtant pas incompatibles chez un dirigeant, comme le montrent les paroles d’Abraham Lincoln en janvier 1838, un quart de siècle avant la guerre de Sécession américaine. « La passion nous a aidé, mais elle ne peut faire davantage. Elle sera notre ennemi dans l’avenir. La raison, froide, calculatrice, sans passion, doit apporter demain tous les éléments de notre existence et de notre défense ».